L’autonomia differenziata determina un aumento dei servizi, ovvero delle spese pubbliche, affidati alla responsabilità politica e legislativa delle Regioni, nonché all’attività amministrativa delle relative autorità locali, Città metropolitane, Province, Comuni e altri organismi del governo locale. Non ne deriverà necessariamente una modifica del sistema fiscale complessivo, ma qualche spinta all’aumento della pressione fiscale non va esclusa, se non altro per l’ulteriore complessità che essa introduce nell’attuale quadro della governance della finanza pubblica. Infatti, la legge 26 giugno 2024, n. 86 distingue le 23 materie gestibili in autonomia differenziata tra quelle soggette a Lep – Livelli essenziali delle prestazioni – e quelle non soggette, e alla loro attuazione, che, in vari campi e in ampie porzioni del Paese sarà molto costosa, con un conseguente inasprimento della pressione fiscale. Ma non dimentichiamo che la legge sul federalismo fiscale prevede la definizione dei Lep e non è ancora caduta nel dimenticatoio: perché il PNRR (Missione 1, componente 1, riforma 1.14, “riforma del quadro fiscale subnazionale”) richiede di completare il federalismo fiscale come da essa prospettato, in particolare assegnando le risorse alle amministrazioni locali sulla base di criteri oggettivi e, comprensibilmente, migliorando la dotazione di strumenti tributari di Regioni a statuto ordinario, Città metropolitane e Province. Per questo aspetto, la parola passa alla riforma tributaria…
Per quanto riguarda i tributi, infatti, da un lato abbiamo le corazzate IRPEF, IVA, IRES, accise, imposte sostitutive sulle attività finanziarie e, dall’altro, i vascelli leggeri IMU, addizionali IRPEF, imposta di soggiorno, “bollo” automobilistico regionale e le tasse automobilistiche delle Province (imposte sull’assicurazione di responsabilità civile e sulla trascrizione al pubblico registro automobilistico). Già oggi, lo squilibrio tra fabbisogni di spesa locali e entrate tributarie locali viene colmato da trasferimenti (in linea di principio “perequativi”) e soprattutto da compartecipazioni al gettito dei tributi erariali. Con l’autonomia differenziata il ricorso alle compartecipazioni si amplierà.
Se in una determinata area di un Paese l’economia si espande oltre la norma nazionale, ciò sarà dovuto alla più incisiva attività degli operatori economici privati, imprenditori e lavoratori, locali e alla migliore fornitura in loco di servizi pubblici. Il gettito delle imposte aumenterà sopra la media nazionale. Dunque, perché non far partecipare alla crescita delle entrate anche i governi locali non solo per mezzo di tributi locali (per esempio, le imposte immobiliari che però sono generalmente a dinamica attenuata), ma anche attraverso la compartecipazione alle imposte statali?
Inoltre, se esistono compartecipazioni, la manovra nazionale sui tributi subisce qualche condizionamento. Se, per dire, a Roma si decide una riduzione delle aliquote o un ridimensionamento degli imponibili, a parità di ogni altra condizione, anche le entrate da compartecipazione degli Enti territoriali diminuiscono. Per evitare questo effetto occorre rivedere la quota di compartecipazione locale al gettito del tributo statale, aumentandola. Se questa modifica avviene di frequente, per esempio ogni anno o due, la compartecipazione perde la sua natura e diventa un trasferimento, cioè un finanziamento accordato dallo Stato agli Enti territoriali secondo le procedure di bilancio parlamentari e, nel caso italiano, le trattative e gli accordi tra Ministeri e Conferenze rappresentative delle autonomie. Per queste la capacità politica di agire nel quadro istituzionale fa premio sullo stimolo a far funzionare al meglio la propria economia locale in modo da godere dell’aumento automatico delle entrate costruite come compartecipazioni.
Le diverse dinamiche dei gettiti. Una volta che sia stata fissata la quota di compartecipazione ad uno o più tributi statali, soprattutto se per un periodo lungo, l’incremento delle entrate per ciascuno degli Enti del medesimo livello di governo, per esempio regionale, può essere anche molto diverso. E qui si colloca un problema non indifferente per tutto il progetto dell’autonomia differenziata.
Trascurando quanto una simile procedura possa arrecare alla trasparenza e alla speditezza dei meccanismi istituzionali che procedono alle decisioni di finanza pubblica, sembra evidente che il tutto serva a tutelare la Regione a statuto differenziato. Tuttavia, il bilancio della Pubblica amministrazione (Pa: Amministrazioni centrali, Amministrazioni locali e Istituti previdenziali) è unitario e i vincoli di finanza pubblica europei, sempre ahimè improntati all’austerità, vanno rispettati. L’Ufficio parlamentare di bilancio (Audizione sulle tematiche relative allo stato di attuazione e alle prospettive del federalismo fiscale, 29 maggio 2024) ha avvertito che l’andamento delle entrate attraverso compartecipazioni di una o più Regioni differenziate non può non ripercuotersi anche sulle altre Regioni o su altri comparti della PA. Infatti, un aumento (automatico) degli incassi si traduce in una crescita della spesa pubblica che può eccedere i limiti del Piano strutturale e di bilancio di medio termine che si dovrà presentare a norma del nuovo Patto di stabilità e sviluppo europeo. Dato che il rispetto del Piano sarà concentrato sui dati della spesa (primaria netta) totale del Paese, sarà necessario ridurre la spesa nelle Regioni non a statuto differenziato o in qualche altro comparto della PA. Teoricamente, se non sarà possibile contenere le spese delle altre Regioni o di altri segmenti della PA, si dovranno aumentare le imposte, probabilmente anche delle imposte compartecipate, con ulteriore beneficio per la Regione o le Regioni a statuto differenziato.
Motivi di ulteriore spesa. Dall’introduzione dell’autonomia differenziata, dunque, qualche spinta all’aumento della pressione fiscale non va esclusa se non altro per l’ulteriore complessità che essa introduce nell’attuale quadro della governance della finanza pubblica. Ma c’è di più. E’ la preoccupazione che potremmo assettare sotto il concetto delle economia di scala. In un contesto di autonomia finanziaria, alcuni apparati dello Stato che ora producono servizi per l’intero Paese, senza essere ridimensionati negli organici, forniranno servizi soltanto per una sua parte.
Materie Lep:
a) norme generali sull’istruzione; b) tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali; c) tutela e sicurezza del lavoro; d) istruzione; e) ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i sistemi produttivi; f) tutela della salute; g) alimentazione; h) ordinamento sportivo; i) governo del territorio; l) porti e aeroporti civili; n) grandi reti di trasporto e navigazione; n) ordinamento delle comunicazioni; o) produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia; p) valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali.
Materie non Lep:
a) rapporti internazionale e con l’Unione europea delle Regioni; b) commercio con l’estero; c) professioni; d) protezione civile; e) previdenza complementare e integrativa; f) coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; g) casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; h) enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale; i) organizzazione della giustizia di pace.
L’applicazione pratica dell’autonomia differenziata per le materie Lep sarà possibile soltanto quando i medesimi saranno definiti e, si intende, garantiti effettivamente in ogni Regione. Per le materie non Lep l’attribuzione di ulteriori forme di autonomia è possibile da subito.
Il cantiere aperto da troppo tempo del federalismo fiscale. Al momento, e da qualche tempo, sono stati determinati soltanto i Lep (denominati Lea, Livelli essenziali di assistenza) della sanità. E’ ampiamente noto che questi non sono rispettati in varie Regioni e che l’assistenza sanitaria è molto disomogenea lungo l’intero stivale. Per formulare anche solo un altro esempio si consideri il “trasporto pubblico locale”, collocato all’interno della materia “grandi reti di trasporto e di navigazione”, che fronteggia una situazione della mobilità locale caratterizzata da “notevolissimi divari territoriali sia tra le aree nord, centro e sud del Paese sia all’interno di esse tra grandi aree metropolitane, aree urbane e aree rurali, insulari e montane” (Comitato tecnico scientifico con funzioni istruttorie per l’individuazione dei livelli essenziali delle prestazioni, 2023, pag. 113).
Per agire in un quadro siffatto, ovvero per avvicinare agli standard desiderati almeno i livelli meno elevati di fruizione dei servizi, bisogna disporre di tempo e di molte risorse (secondo alcune stime, di decine di miliardi). Il rispetto dei Lep colloca il Paese in una prospettiva di un significativo inasprimento della pressione fiscale.
Per questo aspetto, la parola passa alla riforma tributaria la quale promette un superamento dell’IRAP (ma attraverso un problematico inasprimento dell’IRES) e la sostituzione delle addizionali (regionali e comunali) all’IRPEF con sovraimposte. Relativamente a Città metropolitane e Province al momento non sembrano circolare idee, nuove o risalenti, anche se i due tributi di questo livello di governo presentano, pur nei limiti di un gettito di milioni, un caso tipico del federalismo fiscale e delle sue difficoltà. Le Città metropolitane e le Province applicano con qualche differenza d’aliquota un prelievo per le trascrizioni al pubblico registro automobilistico e un’imposta sulla parte di responsabilità civile delle assicurazioni automobilistiche. Avviene che chi può, soprattutto imprese “multi provinciali”, registrano i propri veicoli nelle Province ad aliquote più contenute. Ciò determina un complessivo calo del gettito, più evidente nelle Province ad aliquote più elevate, proprio quelle a maggior fabbisogno.
Copyright © – Riproduzione riservata
Per accedere a tutti i contenuti senza limiti abbonati a IPSOA Quotidiano Premium
1 anno
€ 118,90
(€ 9,90 al mese)
Primi 3 mesi
€ 19,90
poi € 35,90 ogni 3 mesi