Commercialisti: ripartire da chi siamo per dar vita a riforme condivise

Nel rapporto 2023 sull’andamento dell’albo dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, redatto quest’anno dal CNDCEC e dalla FNC, si legge: “nel corso del 2022, gli iscritti all’albo sono rimasti stabili sopra la soglia delle 120 mila unità. Gli iscritti nel registro dei praticanti sono diminuiti (-8,4%) portandosi a fine 2022 a 12.781 con un calo di 1.173 unità. Il 2022 segna, per la prima volta, una crescita zero degli iscritti all’albo, dopo la leggera ripresa del biennio pandemico (2020 e 2021), in linea con il rallentamento della crescita in atto dal 2016”.

Come rilanciare la professione di commercialista

Va detto che, ormai da tempo, all’interno della categoria è in atto una accesa discussione sia sull’analisi delle problematiche che hanno condotto a questa disaffezione dei giovani verso il lavoro del commercialista sia sulle strategie che possono essere messe in atto per contrastare questo fenomeno.

Nel dibattito si sono create diverse scuole di pensiero che vanno da coloro che, estremizzando, prevedono la fine della nostra categoria o una sua decisa contrazione (anche a causa dei processi di digitalizzazione della P.A.) a chi immagina una sua evoluzione prevalentemente incentrata nella attività specialistica e pensa sia fondamentale ottenere un riconoscimento normativo (senza esclusive) per coloro che svolgono specifici percorsi formativi in aree predeterminate (in coerenza con l’orientamento legislativo che ha condotto al nascere di elenchi per ogni funzione richiesta al professionista).

In tal senso è stata anche ipotizzata una riforma del D.Lgs. n. 139/2005, legge istitutiva dell’Ordine dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili che prevede l’obbligo di un lungo percorso formativo per l’ottenimento di un titolo di specializzazione attuato presso le Scuole di Alta Formazione distribuite nei territori con il coordinamento del CNDCEC.

Come è facilmente intuibile, molti sono i fattori che concorrono a una riduzione delle iscrizioni e fiumi di parole sono state dette e scritte su questo tema, però è certo che, in un contesto in forte evoluzione come quello che stiamo vivendo, qualsiasi proposta di modifica deve avere come fine la valorizzazione delle competenze del commercialista per il retroterra di formazione e professionale che caratterizza chi, superando un percorso non semplice, si iscrive all’albo.

L’iscrizione all’Ordine, del resto, è bene ricordarlo, non è affatto un banale riconoscimento formale, ma è, e deve essere, una concreta testimonianza da un lato di una professionalità acquisita nelle tematiche economiche, giuridiche e fiscali, dall’altro di uno specifico impegno a sottostare ad obblighi, impegni e controlli che ne garantiscono la attendibilità.

È da questo assioma che, a mio avviso, è necessario ripartire nel valorizzare la professione e su cui è necessario insistere per ottenere un mutamento normativo: la specializzazione è qualcosa in più, ma non l’elemento che contraddistingue chi fa parte della categoria.

Di una figura che sia in grado di avere anche una visione d’insieme, del resto, oggi più che mai il tessuto imprenditoriale del nostro Paese ne ha evidente domanda.

L’Italia, infatti, ha delle caratteristiche molto specifiche poiché è caratterizzata sia geograficamente che a livello dimensionale da una elevata parcellizzazione.

Come è noto, infatti, in Italia vi sono 7901 comuni di cui solo 136 con una popolazione superiore a 50.000 abitanti.

Poche grandi città, dunque, e tanti piccoli e piccolissimi comuni che, però, costituiscono, per molta parte, le realtà su cui puntare per la crescita di un benessere sociale diffuso.

Uguale situazione si verifica sotto il profilo economico dove alla presenza di un numero limitato di grandi imprese si contrappone oltre il 93% di micro e piccole imprese.

Una realtà economica e sociale molto variegata, inoltre, rende completamente differenti le problematiche di coloro che vivono nei diversi territori.

Molti interventi, negli anni passati, sono stati attuati per agevolare la crescita dimensionale delle imprese poiché si riteneva che fosse l’unico percorso idoneo a garantirne la sopravvivenza.

Oggi questo approccio è stato parzialmente superato per la preoccupazione che l’esasperazione di questa strategia possa condurre a una perdita di valore aggiunto del “made in Italy” (legato, in alcuni casi, proprio alla dimensione artigianale) e a uno spopolamento dei piccoli comuni a favore dei grandi centri.

L’attenzione a evitare che la concentrazione generi risvolti sociali negativi ha indotto, così, politica e istituzioni a modulare gli interventi al fine di incentivare anche il ritorno a contesti nei quali si è registrata una drastica riduzione degli abitanti, valorizzando e sostenendo anche realtà di micro e piccole dimensioni.

L’attuale orientamento è, quindi, di sostanziale equilibrio fra le due esigenze, innescando meccanismi che aiutino chi (per attività, attitudine o opportunità) vuole crescere e tutelando, però, coloro che trovano la loro ragione di essere nel mantenere artigianale o, comunque, di piccole dimensioni la propria attività.

Per le imprese serve un approccio alla pianificazione strutturata dell’attività

In questo panorama molto complesso ed articolato è in atto un profondo mutamento culturale richiesto non solo dal mercato, ma anche dal Legislatore.

La riforma del Codice della crisi d’impresa e, in particolare, l’obbligo di avere un adeguato assetto amministrativo, contabile e organizzativo imposto dall’art. 2086 c.c., infatti, presuppongono un approccio alla pianificazione strutturata dell’attività che, tradizionalmente, è poco presente nelle imprese italiane.

Ciò comporta l’introduzione, anche per la piccola realtà, di sistemi di controllo e mappatura dei rischi aziendali, la predisposizione e l’utilizzo di strumenti prospettici quali il business plan e il budget, la valutazione in ambito finanziario (e anche economico e fiscale) delle scelte strategiche che si vogliono compiere.

Va, poi, rammentato, che, nella pianificazione strategica va inserita anche l’attenzione ai temi della sostenibilità.

Per molti, diventa allora indispensabile, per potersi adeguare, compiere un vero e proprio mutamento di “rotta” e si pone, di conseguenza, forte l’esigenza di avere, un’assistenzasartoriale” nelle scelte di indirizzo e in quelle quotidiane.

Quale ruolo per i commercialisti?

Punto di partenza per svolgere tutto ciò è la gestione dell’area amministrativa e contabile, ambito tradizionalmente affidato al commercialista. Vi è, quindi, un’ampia opportunità professionale che può essere colta dalla larga parte degli iscritti.

La geografia della nostra categoria, inoltre, è speculare a quella appena descritta per le imprese: a fronte di un numero contenuto di studi con più di cinque persone (localizzati in

particolare nelle grandi città) vi è una massiccia presenza di professionisti che lavorano da soli o con un numero limitato di colleghi.

Ove vi è bisogno di consulenze più specialistiche, pur essendo in crescita il numero di Stp (soprattutto nei contesti più dinamici), il modello che si è maggiormente diffuso è quello della rete informale di confronto fra colleghi.

Esistono, quindi, tutti i presupposti perché la domanda di supporto anche di realtà in aree territorialmente più piccole sia soddisfatto proprio dagli Studi che, per localizzazione o dimensione, non possono scegliere come unico percorso l’offerta di consulenza in una sola specifica area.

Appare evidente però, che il numero di adempimenti e la farraginosità delle norme stiano creando notevoli ostacoli nello svolgimento dell’assistenza fiscale, rendendo oggettivamente difficoltosa l’operatività dello Studio e procurando problematiche tali da non consentire di rivestire il ruolo di consulente strategico che sarebbe fisiologico fosse assunto da chi svolge questa professione.

Ciò genera, inevitabilmente, frustrazione e malcontento e riduce l’attrattività per chi si affaccia al mondo del lavoro (dovendo, oltretutto, confrontarsi con una concorrenza che spesso gioca sulla “guerra dei prezzi”).

Un discorso simile, se pur su un piano differente è quello di coloro che hanno optato per percorsi differenti legati alle procedure in tribunale.

Anche in questo caso si registrano forti criticità poiché ci si è trovati di fronte ad un costante svilimento normativo dell’essere iscritto all’Ordine.

Nel giro di pochi anni, infatti, abbiamo assistito alla nascita di un numero sproporzionato di elenchi per la cui iscrizione sono previsti obblighi formativi diversi (che però, in larga parte, trattano le stesse tematiche), senza alcun riconoscimento delle competenze che, per il solo fatto che si è iscritti all’albo, dovrebbero darsi per acquisite, nella totale dimenticanza che il professionista ha un vincolo di aggiornamento e l’obbligo deontologico di accettare solo incarichi che è in grado di assolvere.

I punti di forza della categoria

Presenza sui territori, competenze trasversali aggiornate (grazie alla formazione), vincoli deontologici e infine, da non dimenticare, anche un rapporto fiduciario privilegiato da parte del cliente (di cui, tradizionalmente, il commercialista gode) sono i principali punti di forza della categoria di cui tutti dobbiamo essere consapevoli e che non ha senso mettere in secondo piano rispetto a ruoli più di “nicchia”, come avverrebbe ponendo il focus sulle specializzazioni.

Il problema della scarsa affluenza di iscrizioni, in altri termini, non è dovuto ai contenuti intrinseci della professione di commercialista così come descritta dall’art. 1 della legge istitutiva o alla mancanza di un mercato che ne richieda le competenze, ma è generato da fattori esogeni ed è su quelli che va posta l’attenzione.

Questo non vuol dire sottovalutare l’importanza delle specializzazioni, ma ricondurle nell’alveo di un quadro organico ed omogeneo di crescita della categoria, dando loro la valenza che, in concreto, hanno.

A favore dell’esigenza di introdurre con la riforma nel testo del D.Lgs. n. 139/2005 le specializzazioni, ci sarebbe, secondo alcuni, quanto emerso in una ricerca della FNC e cioè che di fatto molti Studi, oltre a svolgere l’attività tradizionale, risultano specializzati in una specifica area.

Analizzando, però, la distribuzione di tale fenomeno emerge come ciò avvenga soprattutto in aree ad alta concentrazione.

Per molti, inoltre, (probabilmente la larga maggioranza), essa, da sola, non potrebbe fornire una reddittività adeguata a consentire allo Studio il prosieguo dell’attività: non pare, quindi, ipotizzabile che ciò sia l’elemento caratterizzante di una riforma che, in questo caso, assumerebbe i contorni di una spinta ad agevolare una “élite” (che solo della specializzazione può fare la sua principale risorsa).

Per tale motivo appare opportuno (e già lo si fa a livello di ordini territoriali) offrire a chi lo desidera la possibilità di seguire un percorso professionale caratterizzante, ma non si condivide la tesi di un rafforzamento della categoria grazie a un riconoscimento normativo delle specializzazioni, a meno che, ovviamente, esso sia connesso all’introduzione di riserve.

Il tema reale su cui è necessario intervenire, allora, è alla radice e cioè la necessità che sia acclarato nei fatti quanto spesso dichiarato verbalmente e cioè che, anche per un’efficienza di sistema, il Legislatore nello scrivere le norme debba, nelle discipline di competenza, prevedere chiare differenze fra chi ha un percorso di studi articolato (con laurea, tirocinio ed esame di abilitazione) e chi no.

Oggi, invece, in generale, il trattamento riservato ai commercialisti non è differente da quello verso coloro che hanno optato per l’adesione a una delle associazioni nate ai sensi della legge n. 4/2013.

A fronte di ciò, però, ai commercialisti sono imposti molti più obblighi (formazione, assicurazione, antiriciclaggio…) per cui, in definitiva, si rischia, da iscritti, di essere meno competitivi sul mercato rispetto a questo tipo di concorrenza.

Del resto, un obiettivo così non è una meta irraggiungibile poiché ciò è avvenuto anche in altri settori, come, ad esempio, nelle compravendite immobiliari, in alcuni ambiti del lavoro e nella mediazione creditizia (tutti contesti, fra l’altro, nei quali, il nostro percorso professionale era più che sufficiente e dai quali siamo stati esclusi).

La delega fiscale e la figura del professionista qualificato

In essa, all’art. 17, si prevede la riduzione di almeno due anni dei termini di decadenza per l’attività di accertamento previsti dall’art. 43, comma 1, D.P.R. n. 600/1973 e dall’art. 57, comma 1, D.P.R. n. 633/1972, nei confronti dei contribuenti il cui sistema integrato di rilevazione, misurazione, gestione e controllo del rischio fiscale sia certificato da professionisti qualificati, anche in ordine alla loro conformità ai principi contabili, fatti salvi i casi di violazioni fiscali caratterizzate da condotte simulatorie o fraudolente, tali da pregiudicare il reciproco affidamento tra l’Amministrazione finanziaria e il contribuente

Un’ottima occasione di cambio di approccio del Legislatore quindi… a patto che tale funzione sia riconosciuta e riservata a tutti i commercialisti (avvallandone così la valenza della professionalità). senza la creazione di un nuovo elenco e con la previsione di un obbligo di specifici e onerosi percorsi formativi.

Questo consentirebbe anche di attutire, perlomeno su questo fronte, gli effetti della guerra dei prezzi che si innesca, come si è detto, con chi non ha i vincoli di un’iscrizione all’albo.

Un correttivo per la legge sull’equo compenso

La norma sull’equo compenso, infatti, ha voluto stabilire il sacrosanto principio del rispetto della coerenza fra attività svolta e remunerazione, ma ha creato, per chi non ha esclusive, un problema non indifferente di concorrenza: si auspica, perciò, a breve, un correttivo che imponga, ad esempio, vincoli per tipologia di prestazione in modo da regolarizzare il mercato.

In conclusione

Per quanto detto non si ritiene che per far crescere la nostra categoria la strada preferibile sia quella di puntare sulle specializzazioni (tanto più se l’acquisizione del titolo è connesso a lunghi ed onerosi percorsi formativi) attraverso una riforma che condurrebbe, di fatto, a una perdita di identità per i tanti colleghi che svolgono un ruolo di consulenza (forse generalista, ma, certamente strategica) di supporto soprattutto alle micro e piccole imprese.

Diventa, quindi, prioritario uscire da schemi che possono andar bene in altri contesti europei, ma non sono adatti alla nostra realtà, ed avviare un dialogo differente con il Legislatore negoziando perché vi sia finalmente anche un riconoscimento attraverso riserve delle competenze e del ruolo strategico che stiamo svolgendo a supporto del nostro Paese, ad esempio con interventi in tal senso, quali una rivisitazione dell’art. 1 del D.Lgs. n. 139/2005 e l’introduzione di specifiche disposizioni che (laddove non vi siano riserve) rendano esenti per talune materie gli iscritti all’albo da vincoli di frequenza di corsi (che spesso sono forma e non sostanza).

Sono consapevole che tutto ciò costituisca una vera e propria sfida che riporta al centro il valore del commercialista nella sua interezza con la capacità di avere competenze trasversali che ben si adattano a differenti contesti e situazioni.

Sono, però, convinta che questa strada porterebbe realmente a una crescita diffusa della professione su tutto il territorio e non ad uno sviluppo a macchia d’olio che rischia di “lasciare indietro” i contesti meno evoluti e di creare opportunità solo per i pochi privilegiati che possono fare della specializzazione la propria attività, magari avendo l’opportunità di entrare in grandi studi.

Sono persuasa che, in questo modo, non solo i giovani si riavvicineranno a questa professione, ma anche i colleghi già iscritti riscopriranno la gratificazione di un’identità che nel corso degli anni si è andata gradualmente deteriorando con uno scollamento fra ciò che si è e si fa e ciò che il Legislatore ci riconosce.

Il periodo è particolarmente favorevole perché, in epoca di riforme, è possibile porre le basi di regole nuove.

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