Compensazione tra tributi. Un meccanismo delicato da razionalizzare

Il decreto fiscale 2020 ha introdotto quattro ordini di nuove misure che incidono significativamente sul diritto alla compensazione tributaria, potenziando la tutela dei diritti erariali. Misure che comportano sacrifici e complicazioni per i contribuenti, che non sempre sembrano giustificati e che perciò dovrebbero essere riconsiderati, in un tentativo di razionalizzazione che assume sempre più i connotati dell’urgenza. Di fatto, sta ormai emergendo in Italia una “questione” tributaria, tanto per la necessità di un radicale riordino semplificatorio del sistema fiscale e del suo funzionamento, quanto per una migliore organizzazione dei servizi tributari sia da parte pubblica sia da parte dei privati, da coinvolgere molto di più nei processi organizzativi decisionali.

La compensazione, da sempre disciplinata dal Codice civile, costituisce una modalità di estinzione anche dell’obbligazione tributaria. È prevista quale principio generale in ambito tributario dal comma 1 dell’art. 8 dello Statuto del contribuente, mentre le sue modalità applicative sono contenute nella normativa speciale recata dall’art. 17, D.Lgs. n. 241/1997.

La modalità più rilevante e pericolosa è quella costituita dalla c.d. compensazione orizzontale, tra tributi e contributi diversi. Non di rado, infatti, la compensazione è stata strumentalizzata mediante la creazione o esposizione artificiosa di crediti, anche contributivi, inesistenti utilizzati poi in compensazione con debiti reali. Si sono soprattutto sfruttate le asincronie tra i tempi più lunghi di acquisizione e controllo delle dichiarazioni fiscali che dovrebbero dare dimostrazione di quei crediti e quelli immediati della compensazione. Gli ingenti danni erariali che sono stati accertati hanno indotto il legislatore ad adottare nel tempo misure cautelari di restrizioni e controllo, ponendo varie limitazioni all’esercizio di tale diritto. Talune sono sacrosante (come l’obbligo di apposizione del visto di conformità per crediti superiori a 5.000 euro e quello di presentare telematicamente gli F24 contenenti le compensazioni, salvo quelle verticali). Per altre, come alcune di quelle inserite nel decreto fiscale 2020 (D.L. n. 124/2019), sarebbe invece necessario verificare se eccedono quanto necessario ad evitare la frode e quindi se rispettano il principio unionale di proporzionalità rispetto agli scopi perseguiti.

Il decreto fiscale ha introdotto quattro ordini di nuove misure che incidono significativamente sul diritto alla compensazione tributaria potenziando la tutela dei diritti erariali; nel contempo esse hanno comportato sacrifici per i contribuenti, che non sempre sembrano giustificati e che perciò dovrebbero essere riconsiderati.

Ci si riferisce in primo luogo al differimento della possibilità, prevista dall’art. 3, di compensare il credito per imposte (IVA, imposte sui redditi e relative addizionali, imposte sostitutive di quelle sui redditi, IRAP), ad epoca posteriore al decimo giorno successivo a quello di presentazione della dichiarazione (o dell’istanza) in cui il credito compensabile viene riportato per importi superiori a 5mila euro. In caso di violazione, oltre alla comunicazione telematica della mancata esecuzione della delega di pagamento, è prevista anche una specifica sanzione di 1.000 euro per ciascuna delega presentata e non eseguita per difetto di compensabilità, salvo la possibilità di sanare l’irregolarità col versamento della somma dovuta entro i 30 giorni successivi, unitamente alla sanzione per il ritardato versamento.

È stato però opportunamente osservato (fonte CNDCEC) che l’applicazione generalizzata di questa disciplina implica una sorta di prestito forzoso a carico degli operatori privati che saranno costretti, per le imposte diverse dall’IVA, ad attendere almeno il termine iniziale di presentazione della dichiarazione per rendere possibile la compensazione dei crediti che emergono.

La misura andrebbe, quindi, accompagnata dall’anticipo di tale termine quanto meno per allinearlo a quello dell’IVA (1° febbraio), in modo da evitare esborsi che aggraverebbero, altrimenti, la situazione finanziaria delle imprese e dei professionisti. S’intende che tale anticipo implica il rilascio dei software applicativi dei dichiarativi in tempi brevi utili e non sembra che per ora ciò sia realisticamente possibile. Gli effetti saranno avvertiti in particolare dai professionisti che subiscono ritenute d’acconto tali da generare un credito IRPEF, considerando che fino al decimo giorno successivo alla presentazione della dichiarazione dovranno versare l’IVA senza possibilità di compensare quel credito.

Il secondo ordine di misure, adottato con l’art. 1 del decreto, riguarda il divieto di compensazione nel caso di accollo del debito d’imposta altrui, ammesso dall’art. 8, comma 2, dello Statuto del contribuente.

La ratio è quella di evitare che l’accollo sia utilizzato strumentalmente per compensare con i crediti propri i debiti tributari di cui si fa carico l’accollante, alimentando un “mercato” che potrebbe avere connotazioni illecite. La norma considera queste eventuali compensazioni come non avvenute e non solutorie dei versamenti dovuti con i relativi effetti sanzionatori a carico tanto dell’accollante che dell’accollato.

Questo indirizzo non è in realtà una novità essendo stato già assunto in passato dall’amministrazione finanziaria (risoluzione n. 140/E del 2017), che aveva rilevato come in base all’art. 8 cit. il debitore accollato non è liberato e risponde in solido con l’accollante, tenuto anche conto che accollarsi il debito altrui non implica l’assunzione della posizione di contribuente o di soggetto passivo nel rapporto d’imposta ma solo quella di obbligato in forza di titolo negoziale (cfr. Cass. n. 28162/2008).

Un terzo ordine di interventi normativi è quello dell’art. 2, D.L. n. 124/2019 che, in deroga al citato art. 8, comma 1, dello Statuto del contribuente, fa giusto divieto di avvalersi della facoltà di compensazione ai contribuenti destinatari del provvedimento di cessazione della partita IVA oppure di quello di esclusione dalla banca dati dei soggetti che effettuano operazioni intracomunitarie, adottato se sussistono gli elementi di rischio di cui all’art. 35, comma 15-bis del decreto IVA.

In questo caso più della tipologia rischiosa delle operazioni è la pericolosità del soggetto IVA che rende coerente la novella con l’esigenza di contrastare eventuali comportamenti tendenti a realizzare illecite compensazioni, con l’ovvia conseguenza dello scarto dell’F24.

Notevolmente gravoso e più controverso, invece, quanto meno con riguardo alla complessità degli adempimenti, appare il quarto ordine di misure adottate con l’art. 4 del decreto.

Alla sua dichiarata funzione extrafiscale, di contrasto all’illecita somministrazione di mano d’opera, non si associa una coerente disciplina strettamente tributaria. Al committente imprenditore (vanno esclusi quindi i privati) è correttamente vietata la compensazione con propri crediti tributari dei debiti per versamenti delle ritenute eseguite dall’appaltatore quando ha ricevuto da quest’ultimo le somme a tal fine necessarie.

La disposizione si inserisce nell’ambito del complesso meccanismo, avente analoga funzione del reverse charge in materia di IVA, pure disposto con il comma 17 di detto articolo. I committenti di opere o servizi sono infatti obbligati al versamento delle ritenute effettuate dalle loro imprese appaltatrici o sub-appaltatrici sulle retribuzioni dei lavoratori da queste dipendenti e direttamente impiegati nell’esecuzione dell’opera o del servizio. Vi saranno prevedibilmente non poche complicazioni per accertare quali lavoratori, in un ambiente complesso, siano addetti ai singoli appalti.

Discutibile è anche l’obbligo degli appaltatori di fornire ai committenti la provvista necessaria a eseguire il versamento delle ritenute, almeno cinque giorni prima della scadenza, su un apposito conto corrente, salvo che possano opporre la maturazione del diritto a ricevere corrispettivi dal committente, nel qual caso possono invocare la compensazione totale o parziale.

È facile immaginare che potranno verificarsi contrasti di interessi tra questi soggetti a causa di possibili contestazioni sulla regolare esecuzione delle opere o lavori per paralizzare quel diritto. Viene affidato, inoltre, al committente l’onere (gravoso ed incerto) di riscontrare la correttezza delle somme rimesse rispetto a quelle trattenute, ma l’appaltatore resta responsabile della corretta determinazione delle ritenute e del loro versamento se non è stata eseguita la provvista al committente.

Una gran confusione incrociata, quindi, nell’applicazione della disciplina contrattuale sugli appalti e di quella tributaria sulle ritenute.

È evidente la farraginosità degli adempimenti e della procedura, oltre al rischio di sanzioni per la confusione nella ripartizione delle incombenze tra imprese appaltatrici e committenti. Forse un tentativo di razionalizzazione andrebbe fatto per semplificare la vita alle imprese e ai loro consulenti e ridurre l’onere improprio, stimato in 250milioni di euro (fonte: Ance), richiesto dalla necessità di avvalersi di maggiori risorse interne o di servizi professionali esterni per adempiere correttamente a tali obblighi.

Le cronache parlamentari sull’iter della conversione in legge del decreto riferiscono che vi sono forti prese di posizione (con emendamenti) per limitare questa misura così difficile da gestire, da applicare, forse, alle sole somministrazioni di mano d’opera ed escludendo le altre fattispecie di appalto e sub-appalto.

Sta ormai emergendo una “questione” tributaria in Italia tanto per la necessità del riordino semplificatorio radicale del sistema fiscale e del suo funzionamento quanto per migliorare nettamente l’organizzazione dei servizi tributari sia da parte pubblica (erario ed altri enti impositori) che da parte dei privati (associazioni di categoria, centri di assistenza fiscale e professioni), da coinvolgere molto di più nei processi organizzativi decisionali.

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