Compensazioni fiscali: un problema da affrontare alla radice

Anticipare la data di presentazione della dichiarazione annuale potrebbe evitare il differimento prolungato della compensazione dei crediti fiscali, conseguenza delle nuove disposizioni del decreto fiscale 2020. A tal fine, però, persone fisiche e imprese dovrebbero garantire la tempestiva disponibilità dei dati; Agenzia delle Entrate, Sogei e Sose dovrebbero approvare, non oltre febbraio/marzo, i modelli dichiarativi e le procedure informatizzate di compilazione, controllo (ISA) e invio telematico. Il problema dovrebbe, comunque, essere affrontato alla radice: il legislatore dovrebbe dismettere la pratica di modificare la legislazione tributaria nell’ultimo trimestre dell’anno, con effetto retroattivo, soddisfacendo le eventuali esigenze di “cassa” con interventi sulle aliquote. Ciò consentirebbe di licenziare le istruzioni ai dichiarativi e le procedure telematiche già nei primi due mesi dell’anno.

Le misure contenute nel decreto fiscale collegato alla legge di Bilancio 2020 (D.L. n. 124/2019) sono al centro di discussioni e proposte di emendamenti da parte delle forze di opposizione e della stessa maggioranza, che dovrebbero trovare un assetto definitivo proprio nelle prossime ore, se non, per qualche aspetto, addirittura nel momento in cui questo articolo viene pubblicato.

Tra queste, tre riguardano le compensazioni.

L’art. 3, comma 1, del decreto fiscale 2020 prevede(va) una stretta alle compensazioni dei crediti d’imposta IRPEF, IRES e IRAP, superiori a 5.000 euro, per i quali sarà necessario presentare preventivamente la rispettiva dichiarazione dei redditi, oltre che utilizzare il canale telematico per l’invio del modello F24.

La norma modifica l’art. 17, comma 1, D.Lgs. n. 241/1997, equiparando le suddette modalità a quelle già previste per i crediti IVA e si applicherà già ai crediti maturati a decorrere dal periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 2019.

La disposizione ha suscitato molti malumori perché – non potendo più utilizzare il credito a decorrere dal 1° gennaio del periodo d’imposta successivo a quello in cui si è formato – i contribuenti subiranno una penalizzazione in termini finanziari dovuto al differimento della compensazione.

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Tenuto conto che l’esistenza del credito è attestato dalla dichiarazione annuale, dalla quale emerge anche la scelta del contribuente di chiederlo a rimborso o di compensarlo con altri debiti d’imposta (o contributi), l’esigenza dell’Amministrazione finanziaria di conoscere preventivamente la posizione creditoria del soggetto al fine di verificare la regolarità della compensazione, appare pienamente comprensibile. Così come comprensibili appaiono le esigenze di tutela dell’interesse generale al regolare adempimento tributario.

Come evitare il differimento delle compensazioni

Un modo per evitare un differimento prolungato della compensazione sarebbe quella di anticipare la data di presentazione della dichiarazione annuale (oggi possibile a decorrere dal mese di maggio).

Per raggiungere l’obiettivo, le persone fisiche e le imprese dovrebbero garantire la tempestiva disponibilità dei dati. Le seconde dovrebbero essere in grado di chiudere i bilanci al massimo entro tre mesi dalla fine dell’esercizio. Se così non fosse, sarebbe difficile escludere la presenza di un problema di inefficienza interna, che dovrebbe essere risolto. Per gestire l’attività di supporto – gestionale e redazionale – è probabile che lo studio professionale dovrà adeguare il modello di organizzazione del lavoro, anche se dovrebbe risultare contenuto e non traumatico.

Il vero problema da risolvere, però, risiede nella tempestiva disponibilità, non oltre febbraio/marzo, dei modelli dichiarativi e delle procedure informatizzate di compilazione, controllo (ISA) e invio telematico, di competenza dell’Agenzia delle Entrate, di Sogei e di Sose. Già oggi i tempi di rilascio di detti strumenti appaiono eccessivamente lunghi.

Per tale ragione è stato presentato un emendamento all’art. 3 del decreto fiscale 2020, sottoposto in queste ore all’approvazione definitiva, secondo il quale “nel caso in cui, entro la fine del terzo mese successivo alla chiusura del periodo di imposta, non sia ancora possibile per il contribuente procedere alla materiale presentazione della dichiarazione o dell’istanza da cui il credito emerge, per mancanza della relativa modulistica o delle specifiche tecniche per la trasmissione telematica, la disposizione di cui al periodo precedente non si applica e i crediti tornano ad essere utilizzabili secondo le ordinarie modalità a partire dal primo giorno del quarto mese successivo alla chiusura del periodo di imposta”.

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Allo stesso modo e tempo è in discussione un emendamento che alza il valore del credito oltre al quale scatterebbe il vincolo normativo da 5.000 a 10.000 euro.

Un problema da affrontare alla radice

In realtà, il problema dovrebbe essere affrontato alla sua radice.

La necessità di abbreviare i tempi, se ben rappresentata e sostenuta nelle sedi competenti, potrebbe indurre il legislatore a dismettere la deprecabile pratica di modificare la legislazione tributaria nell’ultimo trimestre dell’anno, con effetto retroattivo. Le eventuali esigenze di “cassa” potrebbero essere soddisfatte da un normale intervento sulle aliquote d’imposta. Questa pratica consentirebbe di licenziare le istruzioni ai modelli di dichiarazione e tutte le procedure telematiche già nei primi due mesi dell’anno. E magari, questa regola potrebbe essere inserita nella riforma dello Statuto dei diritti del contribuente sostenuta dall’ANTI (Ass. Naz. Trib. It.), e nella sua costituzionalizzazione.

Ma il tema delle compensazioni potrebbe arricchirsi di due spunti ulteriori.

Il primo riguarderebbe la disciplina di cui all’art. 28-quater, D.P.R. n. 602/1973, che prevede la possibilità di compensare i crediti vantati nei confronti della PA debitamente certificati con i tributi iscritti a ruolo, rimasta ferma al 2017 e ai carichi affidati all’agente della riscossione entro il 31 dicembre 2016, e che potrebbe essere estesa. E anche su questo tema è stato presentato un apposito emendamento la cui votazione è prevista in queste ore o al massimo tra domani e venerdì. Anche se andrebbe risolto il limite rappresentato dal fatto che non tutte le amministrazioni e gli enti della PA aderiscono alla Piattaforma dei crediti commerciali gestita dal MEF e, considerate le esperienze passate, tale strumento ha interessato un limitato ammontare dei crediti.

Il secondo riguarda il principio generale di cui all’art. 8, comma 1, dello Statuto dei diritti del contribuente (legge n. 212/2000) secondo cui “l’obbligazione tributaria può essere estinta anche per compensazione”. In questo caso sarebbe opportuno che venissero emanati dal MEF quei provvedimenti attuativi ritenuti necessari da costante giurisprudenza della Corte di Cassazione.

Sanzioni più lievi

Per concludere sul tema compensazioni, merita due parole l’ulteriore e specifica sanzione in misura fissa pari a 1.000 euro, quindi indipendente dal valore del credito utilizzato, che dovrebbe essere applicabile nel caso in cui la compensazione venisse disconosciuta e la delega (dopo la sospensione), fosse rigettata perché ritenuta irregolare, prevista dall’art. 3, comma 6, D.L. n. 124/2019.

Il condizionale dipende dal fatto che anche questa norma dovrebbe essere modificata in virtù di un emendamento di cui si è dato conto sulle pagine di IPSOA Quotidiano, che provvede sia a ridurne l’entità, sia a modularla.

In particolare, la sanzione sarebbe pari:

– al 5% dei crediti fino a 5.000 euro utilizzati in compensazione e ritenuti non spettanti, quindi con un importo assoluto non superiore a 250 euro;

– alla misura fissa di 250 euro qualora l’ammontare dei crediti non spettanti superasse il livello di 5.000 euro.

In ogni caso, la sanzione, che è collocata tra quelle comminate in caso di incompletezza dei dati contenuti nei modelli di versamento (da 100 a 500 euro) e di omessa presentazione dello stesso modello attestante la compensazione (100 euro), come nuovo comma 2-ter, art. 15, D.Lgs. n. 471/1997, vorrebbe colpire il “tentativo di compensare crediti non utilizzabili” (Relaz. Ill.va). Considerato però che a mente di quanto disposto dal nuovo comma 49-quater, D.L. n. 223/2006, la sanzione in parola non si dovrebbe applicare né qualora la delega di pagamento risultasse corretta a seguito della trasmissione all’Agenzia delle Entrate di elementi chiarificatori, né laddove il contribuente provvedesse “a pagare la somma dovuta” e comunicata dalla stessa agenzia – integrale o parziale rispetto al debito compensato – essa si configurerebbe come una sanzione aggiuntiva rispetto a quella prevista dall’art. 13, D.Lgs. n. 471/1997.

Un livello sanzionatorio indipendente dal valore della compensazione così elevato (1.000 euro) avrebbe potuto indurre l’interprete a ritenere che la norma non sia rispettosa del principio della proporzionalità (della sanzione) quale “grande principio costituzionale di carattere generale” (G. Vassalli), o, quantomeno, quale principio generale del diritto comunitario, così come è stato interpretato dalla giurisprudenza della CGUE e della CEDU.

Un assetto come quello che dovrebbe concretizzarsi, se da un lato vuole porre rimedio all’errore originario, dall’altro non riesce a nascondere che l’intento del legislatore sia solo quello di fare “cassa”, di chiedere un obolo a titolo di rimborso spese, perché in una sanzione così rimodulata, non proporzionale alla dimensione crescente del danno da indebita compensazione – al crescere dell’importo del credito compensato – appare difficile scorgere la natura dissuasiva.

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