C’è qualcosa da salvare nel concordato preventivo biennale, inopinatamente riproposto dopo vent’anni dal primo tentativo? Difficile rispondere positivamente, se solo si prende atto che l’istituto si fonda sulla tassazione di redditi/valori aggiunti prodotti diversi da quelli effettivamente conseguiti, in un contesto in cui è difficile attribuire al consenso prestato dal contribuente una qualche efficacia sanante del vulnus collegato alla differenza tra le basi imponibili effettive e quelle concordate. A ciò si aggiunga che emergono in modo palese dall’attuale assetto normativo, in parte rivisto (e peggiorato) con il decreto correttivo della delega fiscale, sia le discriminazioni tra chi ha aderito e chi, invece, ha rifiutato la proposta del Fisco, con effetti distorsivi anche sulla concorrenza, sia, per effetto dei meccanismi di recente introdotti per rendere più attrattivo il concordato, quelle tra gli aderenti all’istituto, in ragione del fatto che il prelievo fiscale risulta più contenuto proprio in capo a chi di meno lo meriterebbe perché di più ha evaso nei periodi antecedenti all’accordo con il Fisco.
L’istituto, che pur
non è un’
assoluta novità avendo già il legislatore introdotto per gli anni 2003 e 2004, con esiti tutt’altro che soddisfacenti, un concordato preventivo biennale (art. 33 e s. del
D.L. n. 269/2003),
genera infatti
dubbi e perplessità di non poco momento collegati al
rovesciamento del
modello procedimentale tradizionale, quello secondo il quale i contribuenti dichiarano il proprio reddito/valore aggiunto prodotto, che poi, nei tempi di legge, l’Amministrazione può sottoporre a controllo. Il CPB richiede, invece, che l’
accordo sulle
somme da dichiarare avvenga
prima della
realizzazione del presupposto: il “marchio di fabbrica” dell’istituto va dunque ravvisato nella tassazione di un reddito/valore aggiunto prodotto programmaticamente ineffettivo, in un contesto in cui gli obblighi di tenuta della contabilità [
art. 13, comma 1, lett. a),
D.Lgs. n. 13/2024], mantenuti inalterati perché l’istituto non ha e non può avere alcuna rilevanza ai fini IVA (
art. 18 del
D.Lgs. n. 13/2024), evidenziano inevitabilmente la
differenza, in più o in meno, tra
quanto concordato e
quanto conseguito nel periodo di imposta. Né sussistono quelle “valvole di sicurezza” che permettano di “recuperare” i presupposti di imposta nella loro effettività: gli artt. 19, comma 2, e 30, comma 2, del citato decreto fanno
venir meno gli effetti del CPB solamente laddove si verifichino le “
circostanze eccezionali”
individuate dall’
art. 4 del
D.M. 14 giugno 2024 (eventi calamitosi, eventi straordinari che hanno determinato danni e/o sospensione dell’attività, etc.), le quali comportino “minori redditi effettivi o minori valori della produzione netta effettivi, eccedenti la misura del 30 per cento rispetto a quelli oggetto del concordato”.
Di qui la perdurante attualità della conclusione a cui era giunto
Franco Batistoni Ferrara vent’anni fa (“Il concordato preventivo biennale e la Costituzione”, in Il fisco, 2004, p. 8999 e s.): “
non è legittima, per contrasto con l’
art. 53 della Costituzione, la
determinazione di un
reddito nella quale si
dà per scontata la
divergenza con il
reddito effettivo”. Né a differenti esiti interpretativi riesce a giungersi sulla scorta dell’assunto secondo il quale la ricordata
differenza è in qualche modo “
messa in conto”
dal privato che, accettando la proposta del Fisco, non potrà poi nulla addurre qualora non riesca a superare l’asticella rappresentata dagli imponibili concordati. E infatti, non solo è molto impegnativo “passar sopra” alle evidenziate discrasie in forza del fatto che esse sono preventivate dal contribuente, ma, in ogni caso, se a tanto si addivenisse, occorrerebbe perlomeno che il
consenso prestato risulti
libero e incondizionato (e magari preceduto da una forma anche minima di contraddittorio). Il che
nel caso di specie non è, determinandosi in forza dell’adesione una sostanziale impunità fiscale in capo al contribuente che ha stretto il patto con l’Amministrazione e collegandosi, di converso, al rifiuto della proposta il deciso incremento della probabilità di essere assoggettati a verifica fiscale (cfr.
art. 34, commi 1 e 2, del
D.Lgs. n. 13/2024).
Ma non è tutto, atteso che le criticità dell’istituto non si esauriscono nel già grave accantonamento delle basi imponibili effettive.
Il primo profilo problematico emerge dal confronto tra la situazione di chi aderisce alla proposta concordataria e quella di chi preferisce rifiutarla. È corretto che la maggiore propensione al rischio, che, a sua volta, può dipendere anche da una più pronunciata tendenza all’ottimismo, generi carichi impositivi divergenti, che potrebbero, in caso di mal riposta fiducia nell’avvenire, essere più elevati rispetto a quanto si dovrebbe corrispondere sul reddito/valore aggiunto prodotto effettivamente conseguito? All’opposto, risponde a criteri di ragionevolezza accettare le distorsioni della concorrenza derivanti, per chi ha superato la soglia del reddito concordato, dalla possibilità di praticare prezzi più convenienti in modo da acquisire quote di mercato a scapito di coloro che, per prudenza, non se la sono sentita di scommettere sulla crescita del proprio reddito per il biennio successivo?
La seconda criticità attiene al raffronto tra soggetti che aderiscono al concordato ed è imputabile al tentativo di rendere più attrattivo il CPB.
L’
art. 7, comma 1, del
D.M. 14 giugno 2024 prevede che, per il periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 2024, la
proposta di concordato vada
ridotta di un importo pari al 50% della differenza tra (i) l’imponibile che risulterebbe dall’applicazione dal meccanismo di calcolo ordinario e (ii) il reddito dichiarato dal contribuente per il periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 2023 (lo stesso vale per il valore aggiunto prodotto, cfr. art. 7, comma 2).
Esempio
Pertanto, ipotizzando un reddito dichiarato per il periodo d’imposta 2023 di 100.000 euro, a fronte di 140.000 euro conseguiti, e una proposta di 150.000 euro, la somma su cui accordarsi per il 2024 sarà di 125.000 euro; se il contribuente, invece, avesse dichiarato nel 2023 un reddito di 140.000 euro (quello, in ipotesi, percepito), la proposta sarà di 145.000 euro. A parità di condizioni oggettive, quindi, minore è il reddito dichiarato per il 2023, minore è l’imponibile proposto per il 2024.
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A ciò si aggiunga il “
regime opzionale di
imposizione sostitutiva sul maggior reddito concordato per i soggetti che applicano gli
indici sintetici di affidabilità fiscale” di cui al nuovo
art. 20-bis del
D.Lgs. n. 13/2024, introdotto dal ricordato correttivo, in forza del quale si può sottoporre a imposizione sostitutiva, con tassi che vanno dal 10 al 15% in ragione del punteggio ISA del contribuente (più lo stesso è elevato, minore è l’aliquota applicata, nei limiti dianzi detti), la differenza tra (i) il reddito proposto e (ii) il “reddito dichiarato nel periodo d’imposta antecedente a quelli cui si riferisce la proposta”. Si fa quindi non solo un altro
passo in avanti nella
disgregazione dell’
IRPEF, che diventa, per chi aderisce, come ha persuasivamente rilevato
Dario Stevanato (“La regressività del concordato preventivo accelera la fine dell’IRPEF”, in Il foglio, 27-28 luglio 2024),
regressiva (con tutti i problemi di costituzionalità che da ciò derivano, in ragione del fatto che la progressività del sistema è garantita solo dall’imposta sul reddito delle persone fisiche), ma
si discrimina, anche su questo si sofferma Stevanato,
tra aderenti all’istituto, atteso che, a parità di reddito conseguito, il contribuente che ha tassato solo in parte i propri guadagni vedrà assoggettata a imposizione sostitutiva una parte del reddito proposto proporzionalmente più rilevante di quella di chi, invece, tutto aveva dichiarato.
Un esempio varrà a chiarire quanto detto.
Due contribuenti percepiscono il medesimo reddito, pari a 100.000 euro, con la differenza che in relazione al periodo d’imposta 2023 il primo dichiara tutto (ottenendo un punteggio ISA di 10), il secondo la metà (punteggio ISA, 3).
Si ipotizzi, per semplicità, che i due contribuenti siano destinatari della medesima proposta (ma, come si è visto, così non accadrà, perché al secondo sarà proposto un reddito concordabile inferiore), di 110.000 euro.
Ora, laddove intendesse aderire al regime opzionale, il contribuente con punteggio ISA di 10 vedrebbe applicata l’aliquota del 10% su un differenziale pari a 10.000 euro, il che lo avvantaggerebbe, rispetto al regime ordinario, per 3.300 euro [4.300 euro, imposta dovuta con aliquota ordinaria sul reddito incrementale (43% su 10.000 euro), meno euro 1.000, imposta sostitutiva dovuta sul reddito incrementale (10 per cento su 10.000 euro)].
Il contribuente con punteggio ISA pari a 3, invece, conseguirebbe un vantaggio fiscale di 16.800 euro [25.800 euro, imposta dovuta con aliquota ordinaria sul reddito incrementale (43 per cento di 60.000 euro), meno 9.000 euro, imposta sostitutiva dovuta sul reddito incrementale (15 per cento di 60.000 euro)].
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Ma non è ancora tutto, giacché quel che ulteriormente deve rilevarsi è che la
generalizzazione della
possibilità di accedere al CPB a tutti i
soggetti ISA e il fatto, conseguente, che non si può che riferire il reddito concordabile a quello che assicurerebbe il punteggio di 10, potrebbero dare origine a una sorta di “
mutazione genetica”
degli
ISA, i quali, da “selezionatori” dei possibili evasori da sottoporre a verifica, finiranno per assomigliare sempre di più ai defunti (e non rimpianti) studi di settore: se il reddito che, teoricamente, indica evasione zero è solamente quello che consente di ottenere il “voto” 10, è fatale che
i redditi inferiori nel punteggio attribuito siano considerati, di per sé, elementi in grado di avvalorare, insieme ad altri, rideterminazioni marcatamente presuntive (in controtendenza rispetto ai rivolgimenti degli ultimi anni, culminati nel varo dell’
art. 7, comma 5-
bis, del
D.Lgs. n. 546/1992).
Diceva Luigi Einaudi, in un felice passaggio citato in mille occasioni (contenuto nella prefazione a “La giusta imposta” di Luigi Vittorio Berliri, aureo libretto del 1945), che “gli uomini vogliono istintivamente rendersi ragione del perché pagano; e se quella ragione non è spiegata chiaramente, gridano all’ingiustizia. […]”.
Nel caso del concordato preventivo biennale, le
ragioni sono per il vero
ben spiegate e attengono alla necessità di “
razionalizzare gli
obblighi dichiarativi e di
favorire l’
adempimento spontaneo” (così la nota metodologica allegata al
D.M. 14 giugno 2024), obiettivi questi che, a ben vedere, sono collegati a un ulteriore fine,
incrementare il
gettito rendendolo certo e stabile in un momento precedente a quello di realizzazione dei presupposti di imposta.
Ci sono però, e per fortuna, gli studiosi della materia, il cui compito è quello di spiegare, a loro volta, che i pur commendevoli obiettivi testé elencati non possono certo essere perseguiti a scapito: (i) del buon senso, che impone di tassare ciò che si guadagna nel mondo reale e non grandezze fittizie frutto di scommesse sul futuro “indotte” da una, più o meno velata, minaccia ritorsiva; (ii) dell’equità verticale, che richiede che il tributo personale sui redditi delle persone fisiche, a cui il sistema affida la sua progressività, non si trasformi in regressivo; (iii) dell’equità orizzontale, che impedisce di tassare diversamente coloro che si trovano in situazioni uguali, peraltro sottoponendo all’imposta più lieve proprio coloro che di meno lo meriterebbero, perché di più hanno evaso.
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