Contraddittorio preventivo: il gioco dell’oca, per un principio “indigesto”

A distanza di sei mesi dall’implementazione dello Statuto del contribuente, il tema del contraddittorio preventivo sembra tornato nell’abituale, preesistente situazione di caos disciplinare e applicativo; con la clamorosa conseguenza che, per molti dei casi esclusi dall’applicazione del principio e relativi a tributi armonizzati, si perpetua la violazione del diritto europeo che la legge delega imponeva di superare. La riforma viene, quindi, vanificata e, come in un anacronistico gioco dell’oca, si torna al punto di partenza. E’ pertanto quanto mai auspicabile che, esercitando la facoltà di decretazione correttiva prevista saggiamente dalla legge delega, si torni all’originario disegno indirizzato ad assicurare la più ampia applicazione della partecipazione del contribuente. Se così non fosse se ne dovrebbe trarre la conclusione che, nella visione del legislatore, le nostre amministrazioni finanziarie sarebbero impedite nella doverosa lotta all’evasione fiscale dalla presenza di un principio di buona amministrazione riconosciuto come tale in Europa e negli Stati membri!

La vicenda del contraddittorio preventivo conferma, nelle più recenti evoluzioni, i timori emersi nei primi commenti e successivamente consolidatisi via via che al decreto delegato di modifica dello Statuto del contribuente seguivano interventi palesemente restrittivi, tanto da determinare un sostanziale, clamoroso ripensamento da parte dello stesso legislatore parlamentare, che pure nella legge n. 111/2023 aveva fornito precise indicazioni al fine di stabilire una disciplina di principio, di portata generale, conforme agli standard europei.

La crisi di questo punto (che avrebbe dovuto essere) qualificante della riforma si può sintetizzare nel conflitto tra norma di principio e regolamentazione di dettaglio: per ora, stravince la seconda visione, ma questo significa che in larga misura la riforma viene vanificata e che, come in un anacronistico gioco dell’oca, si torna al punto di partenza, con buona pace dell’adeguamento all’ordinamento europeo.

Già l’art. 6-bis dello Statuto del contribuente, pur nel contesto di una formulazione assai ampia e apprezzabile il cui merito principale era di riferirsi a tutti (proprio così: tutti) gli atti impugnabili, introduceva il seme della burocrazia, riducendo il principio ad una procedura rigida, caratterizzata dalla presenza di uno “schema d’atto” considerato indispensabile ad attuare il principio e ad avviare la partecipazione del contribuente.

I frutti di questo seme si sono visti subito, quando con solerzia si è cominciato a dire che se per il contraddittorio ci deve essere lo schema d’atto, il contraddittorio è inapplicabile là dove l’atto è omesso; quando si sono scritte norme di interpretazione sostanzialmente dilatorie dell’entrata in vigore dell’istituto, favorendone un ridimensionamento all’interno dell’accertamento con adesione. Si è creato un allarme in larga parte ingiustificato, su come dovesse comportarsi l’Amministrazione e su quando dovesse considerarsi applicabile la disciplina di un istituto che, puramente e semplicemente, deve garantire al contribuente la possibilità e il tempo di accedere agli atti e di interloquire con l’Amministrazione.

In sostanza, la norma che garantisce l’effettività di un diritto partecipativo fondamentale nel rispetto del canone della buona amministrazione ha perso rilievo, per trasfigurarsi in una norma che sembra avere come oggetto essenziale un adempimento burocratico, lo schema d’atto, divenuto preponderante rispetto al principio stesso.

Bastava rendersi conto che la prospettiva andava semplicemente rovesciata; se lo schema d’atto non viene adottato, ad esempio, il silenzio rifiuto sul rimborso va considerato illegittimo.

Il secondo comma dell’art. 6-bis dello Statuto del contribuente riformato poneva poi un’altra premessa per ridimensionare l’istituto, dopo l’iniziale entusiasmo: si demandava ad un decreto ministeriale (regolamentare?) l’identificazione di atti esclusi dal contraddittorio, perché automatizzati o perché espressione di agevoli liquidazioni del tributo. Il D.M. 24 aprile 2024 ha formalizzato un ipertrofico elenco di atti esclusi, su molti dei quali, tuttavia, può convenirsi che possano essere esclusi dal contraddittorio sulla base di una ragionevole analisi della loro modalità di formazione (se queste garantiscono una partecipazione equivalente a quella assicurata dalla conoscenza dello schema d’atto).

In verità, la preoccupazione di tenere fermo che lo schema d’atto non costituisce l’unica forma di contraddittorio, perché destinata a convivere con i contraddittori “speciali” previsti da specifiche procedure, è stata generata proprio dalla scelta compiuta con l’art. 6-bis primo comma, quando, in luogo di enunciare l’inderogabilità di un principio, che in quanto tale avrebbe dovuto e potuto trovare molteplici forme di attuazione, si è preferito identificare il principio con la comunicazione dello schema d’atto, quasi che senza questo non si trattasse di contraddittorio. Di qui, inutili precisazioni, a loro volta foriere di dubbi, su quali procedure potessero considerarsi legittime anche senza lo schema d’atto (cioè senza il contraddittorio standard, ma con partecipazione affidata ad altre forme di dialogo).

In sostanza, lo stesso Governo appariva incerto e pieno di perplessità: da un decreto delegato formulato in termini ampi ma rigidi, si è passati a note interpretative emesse dallo stesso Ministero, a norme interpretative (d.l. 29 marzo, n. 39/2024), ad un decreto ministeriale insoddisfacente e comunque troppo generoso nel concedere una grande quantità di atti esclusi dal principio (ossia dalla preventiva redazione dello schema d’atto).
Se però è comprensibile che il Governo possa fare dei passi indietro, per la presumibile pressione degli apparati amministrativi chiamati poi ad applicare i principi, stupisce assai che sia stato il Parlamento, in sede di conversione in legge del d.l. n. 39/2024 (legge n. 67 del 23 maggio 2024), ad approvare una norma come l’art. 7-bis che: interpretando autenticamente (?) il comma 1 dell’art. 6-bis, lascia ferma la parte meno convincente dell’art. 6-bis, ma nel contempo determina un passo indietro clamoroso, perché l’istituto diventa obbligatorio non per tutte le fasi preliminari all’adozione di atti impugnabili davanti al giudice tributario (salvo quelli con contraddittorio attuato attraverso strumenti equivalenti), ma per i soli atti impositivi portatori di una reale pretesa impositiva, impugnabili, ma con l’esclusione esplicita degli atti di recupero rispetto a crediti d’imposta utilizzati ma inesistenti.

Non solo: interpretando autenticamente il comma 2 dell’art. 6-bis, la norma interpretativa indica specificamente il diniego di rimborso tra gli atti da escludere dal contraddittorio preventivo a mezzo del decreto ministeriale ivi previsto (peraltro già pubblicato nelle more della conversione in legge del decreto legge), anche se viene lasciato aperto uno spiraglio per una disciplina diversa in funzione del “relativo valore” del rimborso.

Ora, a parte la prevedibile quantità di contestazioni che potrà essere originata dalla pur sempre opinabile distinzione tra crediti inesistenti e crediti non spettanti (solo il recupero dei primi sembra escluso dal contraddittorio), dalla individuazione della soglia oltre la quale l’istanza di rimborso va seguita dal contraddittorio, quello che è certo è che a distanza di sei mesi dall’implementazione dello Statuto del contribuente, il tema del contraddittorio sembra tornato nell’abituale, preesistente situazione di caos disciplinare e applicativo, ed oltretutto con la clamorosa conseguenza che, per molti dei casi esclusi dall’applicazione del principio e relativi a tributi armonizzati, si perpetua la violazione del diritto europeo che la legge delega imponeva di superare.

E’ dunque quanto mai auspicabile che, esercitando la facoltà di decretazione correttiva prevista saggiamente dalla legge delega, vi sia un complessivo ripensamento della materia, al fine di tornare, senza timori e senza ipocrisie, all’originario disegno del legislatore delegante indirizzato ad assicurare la più ampia applicazione della partecipazione del contribuente; questo obiettivo presuppone, ad avviso di chi scrive, la affermazione di un principio che potrà essere attuato anche mediante adempimenti non identici nelle singole procedure, ma che comunque dovrà essere riconosciuto prevalente su ogni altra esigenza e affidato alla sapienza interpretativa della giurisprudenza, ispirata da buon senso e dalla capacità di mediare esigenze di celerità e garanzie.

In questa logica, potrebbe essere più ragionevole circoscrivere l’applicazione del principio alle procedure di tipo accertativo, escludendo gli atti di riscossione di carattere meramente esecutivo, confermando invece l’originaria idea di estendere il contraddittorio ai procedimenti ad istanza di parte (rimborsi, ma non solo), là dove il dialogo può avere un’importanza assimilabile a quella degli accertamenti.

Sarebbe veramente deludente (soprattutto rispetto alle intenzioni dichiarate al momento del varo della riforma) se il principio venisse ancora una volta ridimensionato e confinato in un ambito angusto e formalistico; se ne dovrebbe trarre la conclusione che, nella visione del legislatore, le nostre amministrazioni finanziarie sarebbero impedite nella doverosa lotta all’evasione fiscale dalla presenza di un principio di buona amministrazione riconosciuto come tale in Europa e negli Stati membri.

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