Daspo ai consulenti archiviato ma le sanzioni restano

Per la Cassazione, il professionista che accetta la proposta del cliente di conteggiare i contributi previdenziali secondo criteri contrari alla legge è responsabile contrattualmente per la violazione del parametro della diligenza (articolo 1176, comma 2 del Codice civile), che gli impone di effettuare la scelta professionale che meglio tuteli il cliente: la richiesta di svolgere un’attività al di sotto di questo parametro di diligenza, anche se riconducibile al cliente, non esonera il professionista, che è così tenuto a concorrere con il cliente per il 50% del risarcimento dovuto (si vedano le schede a fianco).

L’indebita compensazione

Il reato di indebita compensazione (articolo 10 quater del Dlgs 74/2000) si realizza nel momento in cui tramite gli F24 si operano compensazioni oltre la soglia di punibilità (50mila euro per singolo periodo d’imposta). Secondo la Cassazione il professionista che tiene la contabilità di una società e che, attraverso ingannevoli indicazioni circa l’esistenza di un credito d’imposta, induce l’amministratore della stessa a compensarlo con il debito Iva risponde di indebita compensazione(Cassazione, sentenza 15231/2017). Peraltro, il cliente non può essere ritenuto responsabile del reato di indebita compensazione commesso dal suo commercialista per il solo fatto di essere venuto a conoscenza del comportamento delittuoso a posteriori. Per chiamare il contribuente a rispondere dell’illecito, infatti, occorre dimostrare che egli, consapevole di non aver diritto alla compensazione richiesta dal suo professionista, sia rimasto inerte per godere del profitto del reato commesso da altri (Cassazione, sezione penale, sentenza 39333/2019).

La dichiarazione fraudolenta

Da ultimo, oltre alla responsabilità amministrativa tipica dei consulenti fiscali (articolo 39 del Dlgs 241/1997) con conseguente applicazione di una sanzione da 258 a 2.582 euro, la giurisprudenza penale ha affermato la responsabilità del professionista per il reato di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, concludendo che l’apposizione di un visto mendace costituisce un mezzo fraudolento idoneo a ostacolare l’accertamento e a indurre in errore l’amministrazione finanziaria. Questa conclusione non muta a seconda che si tratti di un “visto leggero” (articolo 35 Dlgs 241/1997) o “pesante” (articolo 36). Anche nel caso del visto “leggero”, infatti, il professionista è tenuto a riscontrare la corrispondenza dei dati esposti in dichiarazione con le risultanze della documentazione e la conformità alle norme che disciplinano gli oneri deducibili e detraibili, le detrazioni e i crediti di imposta, nonché lo scomputo delle ritenute d’acconto.

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