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Decreto Sanzioni: ne bis in idem e doppio binario processuale da meditare

Decreto Sanzioni: Ne Bis In Idem E Doppio Binario Processuale Da Meditare

Il decreto Sanzioni affronta anche il principio del ne bis in idem: cerca di dargli un contenuto concreto, tenendo conto del doppio binario punitivo delle sanzioni tributarie, di tipo amministrativo e penale. Una domanda: il decreto delegato ha attuato la delega fedelmente nell’ambito dell’osservanza del principio del ne bis in idem? Non si può proprio (ancora) fare a meno del doppio binario sanzionatorio e processuale per trovare un giusto assetto che sia sicuro indice di libertà?

Consideriamo ora questo principio, collocandolo in un quadro concettuale più generale per valutare se vi sono nel decreto elementi idonei a conferirgli un concreto contenuto, tenendo conto del doppio binario punitivo delle sanzioni tributarie, di tipo amministrativo e penale.

Su di esso le Corti europee (CEDU e CGEU) hanno da tempo espresso orientamenti convergenti, con riguardo alla sua portata e interpretazione, tanto che è sembrato possibile valutarne anche la forza garantista. Una recente tendenza regressiva delle stesse autorità induce, però, a qualche apprezzabile dubbio.

Pur tutelando il principio in esame i medesimi valori ed interessi sociali, si avverte una certa differenza dei fini che i due procedimenti perseguono. Il primo, di carattere amministrativo, è volto a garantire la riscossione dei tributi quale essenziale funzione per la stabilità finanziaria dello Stato. Il secondo, penale, è teso a sanzionare, anche in ragione del disvalore sociale, le stesse condotte se risultano connotate da insidiose componenti fraudolente o dolose, ovvero recanti danni significativi alle finanze pubbliche (es. omessi/insufficienti versamenti di imposte).

Dopo un periodo in cui sembrava essersi affermata la tesi del doppio binario alternativo sono intervenute le sentenze gemelle delle Sezioni Unite della Cassazione del dicembre 2013, che hanno di nuovo ammesso il concorso tra sanzioni e procedimenti penali e quelli amministrativi. Si sono perciò riproposte le richieste di tutela dell’imputato (contribuente) sia quando dovesse subire un secondo processo (penale), oltre a quello tributario, che per la possibile applicazione di una seconda pena per il medesimo fatto. Si tratterebbe di una sommatoria di tipo afflittivo che è, invero, tutta da verificare se si considera questa tutela un diritto fondamentale. Il principio del ne bis in idem non esclude, invece, che l’imputato possa subire due o più sanzioni per lo stesso fatto, di tipo detentivo, pecuniario ed interdittivo, come la sospensione dell’attività. Anche se è agevole osservare che lo stesso risultato potrebbe conseguirsi stabilendo una pena più severa per ogni specifica fattispecie all’esito di un unico procedimento, che costituirebbe l’approdo naturale dell’affermazione concreta e sostanziale del principio stesso.

Viene da chiedersi, allora, quale assetto normativo coerente con questo principio hanno voluto perseguire la legge delega, prima, e il decreto delegato, poi.

L’art. 20 della legge delega n. 111/2023 dispone, per gli aspetti comuni alle sanzioni amministrative e penali, la razionalizzazione del sistema sanzionatorio, anche attraverso una maggiore integrazione tra i diversi tipi di sanzione, ai fini del completo adeguamento al principio del ne bis in idem. Oltre all’ammissione che il principio in parola non è ancora completamente adeguato nel nostro ordinamento giuridico, è evidente che ci troviamo di fronte ad una mera dichiarazione di principio, con la quale all’“integrazione” delle sanzioni non si abbina anche quella dei processi, superando l’attuale doppio binario tributario-penale.
Una prima, ovviamente sommaria, lettura del novello D.Lgs. n. 87/2024, induce a ritenere appena sufficiente al citato fine integrativo la disciplina recata dalle modifiche apportate al D.Lgs. n. 74/2000 con il nuovo art. 21-ter introdotto dal D.Lgs. n. 87/2024, che ritiene di attuare l’integrazione che precede prevedendo che il giudice o l’ufficio nel determinare le sanzioni devono tenere conto di quelle già irrogate con provvedimenti o sentenze assunti in via definitiva, per ridurne la relativa misura.

Cosa avviene, però, in caso di sentenza penale irrevocabile di assoluzione che non commina perciò alcuna sanzione? In qual modo il giudice tiene conto di quelle amministrative già irrogate dalla relativa autorità fiscale? Se è corretto ritenere che l’integrazione voluta dalla legge di delega dovrebbe essere intesa in senso sostanziale e se, quindi, è pronunciata assoluzione per non aver commesso il fatto o perché questo non sussiste, non dovrebbe permanere l’effetto dell’eventuale irrogazione di sanzioni da parte dell’Ufficio, sempre che i fatti considerati nella sentenza penale sono gli stessi posti a base dell’atto di accertamento.

Facciamo un esempio concreto. Qualora l’accertamento dell’Ufficio riguardi l’utilizzazione di una fattura per operazioni inesistenti e sia, perciò, applicata la relativa sanzione amministrativa e, però, la successiva sentenza penale irrevocabile ritenga che tali fatti-presupposto siano insussistenti, il giudice penale dovrebbe tenere conto della sanzione amministrativa irrogata e dichiararla ineseguibile (se non ancora eseguita) perché, in caso contrario, non vi sarebbe integrazione tra sanzioni, che sarebbero applicate anche se il fatto presupposto è dichiarato non sussistente.

E se la sanzione fosse stata eseguita la sentenza di assoluzione dovrebbe o no dichiarane l’inapplicabilità, con conseguente diritto di rimborso? È fortemente da temere che difficilmente si perverrà a questo tipo di assetto, lasciando aperta una palese ingiustizia, effetto della duplicazione dei processi.

Proprio passando alla disamina della disciplina sui processi, si rileva come la novità introdotta (comma 1-bis dell’art. 20, D.Lgs. 74/2000) prevede l’utilizzabilità nel processo penale delle sentenze irrevocabili del processo tributario e degli accertamenti definitivi, ai fini della prova del fatto accertato. Si possono già ora immaginare le perplessità di una simile disposizione in un contesto in cui l’accertamento dei fatti materiali in sede di processo tributario è quanto meno labile anche in relazione alle garanzie minime di difesa ed è scontato che la durata dei processi penali sia ben maggiore di quelli tributari, quanto meno per gli oneri processuali connessi alle prove.

Più coerente è, invece, la norma (art. 21-bis, comma 1) che ha previsto, a situazioni invertite, l’efficacia del giudicato nel processo tributario della sentenza penale irrevocabile di assoluzione, a seguito di dibattimento, perché il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso. Non è difficile prevedere che l’evento sarà alquanto raro per le precedenti ragioni di durata dei giudizi. In ogni caso si assisterà alla rincorsa dei giudicati per utilizzarli a proprio favore nell’uno o nell’altro processo con effetti, quindi, rimessi all’efficienza degli organi di giustizia giudicanti e perciò del tutto causali.

L’osservanza del principio del ne bis in idem da parte dei singoli Stati è stata sempre più utilizzata nel recente passato per testare la tenuta dei relativi sistemi sanzionatori e la coerenza con i principi di civiltà giuridica propria degli Stati che tutelano i principi di libertà. Esso meriterebbe, perciò, di essere declinato nel divieto di assoggettare la stessa persona per due volte a processo per il medesimo fatto. Lo si deve soprattutto all’insistenza con cui le Corti di giustizia dell’UE hanno sollecitato gli Stati ad attuare realmente questo principio e dalla sensibilità dimostrata da pochi giudici nazionali. Non è facile però definirlo quale strumento volto a conseguire una certa stabilità di sistema ed evitare accanimenti che si recepiscono come persecutori nei casi in cui sia stato celebrato un processo e pronunciata una sentenza. Manca, infatti, ancora un terreno solido a cui ancorarsi per ottenere questo risultato. È per questo motivo che la formulazione dell’art. 20 citato appare un bel manifesto in relazione alla non ancora raggiunta stabilità del principio ivi enunciato, in ambito financo europeo.

Se poi lo si considera in senso sostanziale, non sfugge la caratteristica propria del sistema sanzionatorio tributario italiano della moltiplicazione delle sanzioni, tanto penali che amministrative per la medesima fattispecie.

Anzi, come è stato osservato recentemente, il sistema italiano conosce fino a sette sanzioni afflittive, in parte punitive, per lo stesso fatto commesso: pene principali, pene accessorie, misure di sicurezza, sanzioni amministrative e disciplinari, decadenze, sospensioni, incapacità, indegnità, etc., risarcimenti civili anche punitivi e responsabilità contabile, misure interdittive e cautelari, misure di prevenzione (notifica di una sospensione interdittiva e sanzione disciplinare).

La riforma delle sanzioni ha ridotto la misura delle pene a livelli più accettabili, ma non la loro duplicazione o anche di più. È quindi naturale evocare l’esistenza di un problema di diritti fondamentali.

La materia fiscale è diventata un esempio dell’interdipendenza nei rapporti tra Enti impositori e soggetti passivi, che sono necessari per realizzare il gettito destinato a sostenere la spesa pubblica, pur se quei soggetti tendono a sfuggire, nella misura possibile, ai propri doveri fiscali (un detto francese afferma emblematicamente che “la fraude est à l’impot ce che l’ombre est a l’homme”; e poiché l’ombra dell’uomo non può essere eliminata anche l’evasione fiscale può considerarsi un aspetto collaterale dell’imposizione).

È di comune osservazione, nei vari Paesi a civiltà avanzata, che vi sia da una parte una legislazione dura nelle sanzioni contro le forme fraudolente propria delle condotte volte all’evasione fiscale e dall’altra una sempre più marcata tendenza al dialogo ed alla collaborazione se non si ravvisa la frode.

Ne abbiamo un esempio in Italia proprio con gli istituti collaborativi appena varati dai decreti attuativi della riforma tributaria del 2023 (adempimento collaborativo, concordato preventivo biennale, transazione fiscale) e con la non punibilità penale in presenza di comportamenti riparatori (tale è ad es. il pagamento delle imposte evase prima dell’apertura o chiusura del dibattimento).

Non può sfuggire che attraverso la fungibilità del denaro viene barattata la pena con le esigenze di riscossione, e deve ammettersi che manca in tali casi il profilo risarcitorio. Questo a ben vedere potrebbe essere lo spunto per sostenere con convinzione la unicità della sanzione (penale e amministrativa) per le violazioni fiscali, facendola promanare possibilmente da un “unico” processo, che non può che essere quello penale. Infatti, se il fatto assunto a base del giudizio è coincidente nell’ambito amministrativo ed in quello penale, s’intende quando si entra nel suo perimetro, come nell’ipotesi di omessi versamenti di imposte oltre una soglia di punibilità penale, o di omissioni/infedeltà dichiarative oltre le soglie di punibilità o di fatture false. In tal caso è indubbiamente il giudice penale quello più adatto ed attrezzato per accertare il fatto presupposto dell’imposizione, determinare il risarcimento del danno (imposte evase, interessi e rivalutazione) e stabilire la pena afflittiva tanto in termini di sanzioni di tipo personali (reclusione) che pecuniario in proporzione alla gravità ed alla insidiosità delle violazioni.

Tornando all’iniziale notazione, ci si chiede se il decreto delegato abbia attuato la delega fedelmente nell’ambito dell’osservanza del principio del ne bis in idem e se non si possa proprio (ancora) fare a meno del doppio binario sanzionatorio e processuale per trovare un giusto assetto che sia sicuro indice di libertà.

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