Gli
impegni derivanti dall’essere
Stato membro della UE e dal
PNRR sono diventati, non da adesso ma già da qualche tempo, l’argomento giuridico per
giustificare o per
contrastare (talora anche in modo strumentale) le
iniziative legislative nazionali dirette ad
innovare (o, semplicemente, a cambiare) taluni settori dell’ordinamento e, in specie, quello penale processuale o sostanziale.
La collisione, vera o presunta, con le richieste o le aspettative dell’UE è diventata, non da oggi, lo strumento dialettico più utilizzato – unitamente all’evocazione di profili di illegittimità costituzionale – per contrastare le scelte legislative operate o in itinere.
Al netto della fisiologica diversità di scenari giuridici, derivante anche dal diverso punto ideologico di partenza e dalla risposta politica che si vuole dare a determinati fenomeni sociali e ad istanze (anche mediaticamente supportate) da parte dei destinatari del precetto, resta ineliminabile – ed aggravato dalla crescente e alluvionale produzione giuridica – il problema dell’armonizzare il nuovo con il contesto normativo in cui viene ad inserirsi.
Ad esempio, se si prende come punto di riferimento l’impegno derivante dal PNRR di ridurre del 25% i procedimenti penali entro il quinquennio successivo è agevole obiettare che determinate scelte legislative o orientamenti giurisprudenziali vanno esattamente in direzione opposta.
Quanto alle prime, la condizione del previo integrale
pagamento dei “debiti tributari comprese sanzioni amministrative ed interessi”, per poter accedere al patteggiamento e agli effetti premiali che comporta (
art. 13-bis,
D.Lgs. n. 74/2000 come modificato), crea un obiettivo conflitto con l’interesse ad incentivare l’accesso a riti semplificati ed a ridurre le impugnazioni e può lasciare senza una (condivisibile) risposta il quesito se siano da tutelare prioritariamente gli interessi erariali (di cui agli
articoli 23 e
53 Cost.) o l’obiettivo di deflazionare i carichi di lavoro della magistratura inquirente e giudicante (secondo quanto richiesto dal PNRR).
E ancora, la incessante elefantiasi del
catalogo dei reati cui è ricollegata una
responsabilità amministrativa dell’
ente ex D.Lgs. n. 231/2001 trascina con sé il moltiplicarsi dei processi penali a carico delle persone giuridiche (fermi restando quelli a carico delle persone fisiche), ma questo
surplus di carichi di lavoro giudiziario è o non è un prezzo accettabile per moralizzare l’attività imprenditoriale, così che sia in linea con gli inderogabili requisiti pretesi dall’
art. 41 Cost. (e, quindi, non sia pregiudizievole per la salute, l’ambiente, la sicurezza e la dignità umana)?
Ogni scelta implica rinunce, compromessi e costi: ad esempio, la delineata riforma del reato di abuso di ufficio – ove attuata in via definitiva – porterà certamente ad un ridimensionamento del numero dei reati contro la pubblica amministrazione (con ciò contribuendo pro quota alla deflazione dei procedimenti penali cui l’Italia si è impegnata per conseguire i fondi del PNRR), ma questa scelta di penalizzazione rischia (o no) di lasciare vuoti di tutela e di alimentare un “non buono” andamento dell’amministrazione?
Questo è il vero delicato
profilo problematico, e non certo il
transitorio aggravio di lavoro derivante dalla “revoca della sentenza” (di condanna) “per abolizione del reato” (
art. 673 c.p.p.) e dalla conseguente pulizia del casellario giudiziale derivante dalla necessaria “eliminazione delle iscrizioni” (
art. 5,
D.P.R. n. 313/2002).
Quanto agli
orientamenti giurisprudenziali, certo
non producono effetti deflazionistici le decisioni tenacemente rivolte ad una intransigenza punitiva, ancorché giuridicamente motivata o motivabile: si pensi alla ritenuta
incompatibilità tra
determinati istituti (esempio, messa alla prova) e il
sistema 231 (il cui effetto è di spingere l’ente sotto processo penale a percorrere tutti i gradi di giudizio alla ricerca dell’epilogo più favorevole o meno pregiudizievole); si pensi all’applicazione dell’
art. 131-bis c.p. alle persone fisiche, ritenuta inidonea a determinare la non punibilità anche dell’ente datore di lavoro per il meno grave illecito amministrativo “da reato” (e, quindi, tale da imporre all’ente una strenua resistenza processuale); si pensi – sempre in tema di particolare tenuità del fatto – alla più recente giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione (
Cass., Sez. III penale, 12 maggio 2023, n. 20279) che sembra mettere in discussione l’applicazione della causa di
esclusione della
punibilità per determinati reati (quali le lesioni gravi da
infortunio sul lavoro), al di là del tenore letterale dell’
art. 131-bis c.p., con ciò evidenziando una volontà di tutela di determinati valori (superiore a quella estrinsecata dal testo normativo), anche a discapito di soluzioni più deflattive dei carichi di lavoro.
Appare pienamente in linea con l’obiettivo di evitare il processo “inutile” il potere, riconosciuto al giudice dell’udienza preliminare, di pronunciare sentenza di non luogo a procedere “anche quando gli elementi acquisiti non consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna” (
art. 425, comma 3, c.p.p.).
Il processo senza prospettive di adesione giudiziale alla tesi dell’accusa va evitato non tanto e non solo per il costo sociale che comporta ma, anche e soprattutto, per il
costo individuale che la
qualità di imputato arreca alla persona fisica coinvolta: in questa prospettiva, sorprende che qualcuno abbia ipotizzato che detta disciplina processuale (introdotta con il
D.Lgs. n. 150/2022)
non sia
applicabile nel processo penale a carico degli
enti per responsabilità amministrativa “da reato”: se è vero che l’
art. 61,
D.Lgs. n. 231/2001 non è stato formalmente modificato e continua a richiedere l’esistenza di “elementi idonei a sostenere in giudizio la responsabilità dell’ente” (comma 1), è anche vero che non emerge alcuna “incompatibilità” nell’interpretare questa formula, adeguandola alla scelta operata dalla normativa del codice di rito penale (GUP Trib. Milano, 31 gennaio – 15 febbraio 2023).
La scelta attuata con il
D.Lgs. n. 231/2001 di accertare la
responsabilità dell’ente attraverso le
forme processuali penali, si è rivelata molto garantista e, al contempo, molto gravosa per la struttura giudiziaria.
Qualche cauto
passo all’indietro in sede legislativa (e, di riflesso, giurisdizionale)
non è da considerarsi
eversivo: la programmata depenalizzazione del delitto di abuso d’ufficio (
art. 323 c.p.), ad esempio, farebbe venir meno anche un reato presupposto della responsabilità dell’ente (
art. 25,
D.Lgs. n. 231/2001, come emendato con
D.Lgs. n. 75/2020), con ciò contribuendo al non facile obiettivo di
riduzione di un quarto della materia penale che viene trattata in sede giudiziaria.
Va, però, posta estrema attenzione a tutte le implicazioni di determinate scelte di politica legislativa: senza nulla togliere ad una potatura drastica delle fattispecie penali e alle positive ricadute processuali in termini di carico di lavoro, il rischio da evitare è che la deflazione processuale si traduca in deficit di tutela e in mancata risposta alla domanda di giustizia della vittima (si pensi agli effetti distorsivi generati da una accentuata perseguibilità a querela e dai pur necessari “criteri di priorità” che portano ad una denegata giustizia nei confronti della vittima di un reato che non è considerato “prioritario” e del cui accertamento e della cui repressione nessuno, verosimilmente, si occuperà).
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