Le imprese per essere sempre più competitive, in vista dei cambiamenti che saranno imposti dal progetto OCSE sulla digital tax, devono necessariamente adeguare il proprio assetto organizzativo e rivoluzionare anche la propria catena di distribuzione, la supply chain, con l’obiettivo di riscrivere l’infrastruttura dell’azienda che guiderà i processi economici del futuro. Occorrerà, in particolare, ottimizzare le risorse a disposizione, evitare gli sprechi ed essere più veloci nel soddisfare le richieste dei clienti. Da dove cominciare?
La stretta sulle norme antielusione, BEPS, la riscrittura dei codici sulla trasparenza per affrontare i fenomeni dell’evasione e del riciclaggio, il rafforzamento su di un piano globale dello scambio d’informazioni e il relativo flusso di dati, miliardi di numeri e di profili fiscal-finanziari che viaggiano ogni singolo istante da un Paese ad un altro.
Una rete di nuove prassi e di altrettanto recenti procedure a cui si aggiunge la novità forse più dirompente per l’assetto organizzativo dell’impresa contemporanea, il progetto di digitalizzazione della tassazione su base praticamente universale che l’OCSE è impegnata ad elaborare.
Tutte novità che nell’insieme comporteranno un adeguamento non transitorio né accessorio ma risolutivo che condurrà in breve alla riscrittura del sistema organizzativo, della supply chain dell’azienda-modello come mai abbiamo visto in precedenza.
La sfida è aperta, perché si tratta di norme già largamente operative e a regime, quindi ora sarà compito del management riscrivere cos’è l’impresa, come la si alimenta, come si adegua ai cambiamenti, come sarà capace non di esserne guidata, dalle modifiche che si cumulano, ma di essere essa stessa capace di guidare il cambiamento in atto e quello che si profilerà in futuro. In sostanza, la sfida è sulla rimodulazione della supply chain tradizionale dell’azienda.
Rischi della digital tax per le aziende
Diciamolo subito, non si tratta solo di digitale né tanto meno d’una maggiore tassazione in arrivo. Nient’affatto. Le cose stanno diversamente. Le nuove regole fiscali stanno esse stesse lottando per tenere il passo con il progresso tecnologico, creando domande e sfide dirette ad incalzare le aziende, in particolare quelle con un discreto tasso di internazionalizzazione.
Il quadro di confronto è il seguente: quanto profitto può derivare da una transazione che utilizza l’intelligenza artificiale o un algoritmo rispetto a una persona? E ancora, se un prodotto che una volta era spedito o trasportato oltre i confini ora può essere stampato lì, in loco, a quale regime fiscale o entità statuale e geografica si correla la tassa dovuta?
Sono esempi di come le operazioni commerciali globali tendono a ristrutturarsi divenendo sempre più virtuali pur mantenendo una concretezza di fondo, come presupposto essenziale. Le persone possono lavorare per le aziende, ma anche per loro proprio interesse, da qualsiasi luogo.
Allo stesso modo, ora è possibile distribuire merci oltre i confini senza nemmeno aver bisogno della distribuzione fisica. Il rischio è che in queste situazioni, si può facilmente incorrere nell’eventualità di dover pagare più in imposte sul reddito e una quota maggiore di imposte indirette come l’IVA.
Basti pensare che con i servizi che una società offre sul mercato, la stessa impresa potrebbe essere attratta tra le tipologie dei contribuenti comunque tassabili in un Paese X entro i confini del quale non v’è alcuna presenza fisica effettiva e con il quale in precedenza non v’erano stati rapporti definiti quando però la società in questione vendeva soltanto prodotti non servizi.
Debolezza dell’attuale supply chain
Queste nuove catene del valore sollevano molte domande per le quali le imprese non hanno ancora definito regole esplicite. In pratica, l’efficienza del modello operativo dell’impresa moderna, la sua rete di comando e di produzione, permangono in una sorta di limbo senza tempo.
In realtà, le aziende di ogni settore dovrebbero pensare fin d’ora a come si trasformeranno per regalarsi in futuro l’agilità per rispondere in modo adeguato a queste sfide ed essere in prima linea nella nuova economia, non nella retroguardia del cambiamento.
Come sistema di organizzazioni, persone, attività, informazioni e risorse coinvolte nel processo atto a trasferire o fornire un prodotto o un servizio dal fornitore al cliente, la supply chain è la piattaforma multipla da dove iniziare a riscrivere l’infrastruttura dell’impresa nuova che guiderà i processi economici che si vanno profilando.
Si tratta di intervenire su di un processo, come già detto molto articolato e complesso, che inizia con le materie prime, continua con la realizzazione del prodotto finito e la sua gestione di magazzino, e termina con la fornitura del prodotto finale al cliente.
L’intero iter è diviso in vari step, e in ogni passaggio sono coinvolte diverse figure professionali. In particolare, le attività che definiscono il supply chain management d’una società sono nove ed è su questo terreno che si dovrà intervenire, a partire dal Marketing, dalla ridefinizione dei rapporti con i fornitori, alla riscrittura degli approvvigionamenti e delle strategie di gestione e stoccaggio delle scorte di materie prime.
E questo tenendo presente le nuove forme di tassazione, regolamentazione e trasparenza oggi esistenti. La stessa metrica di cambiamento interesserà anche la produzione, la gestione e stoccaggio delle scorte di prodotti finiti, gli ordini d’acquisto, la gestione delle consegne, la logistica di ritorno. In altre parole, una riscrittura del fare-impresa.
Perché si deve iniziare dalla supply chain
Per il vantaggio competitivo che garantisce. Una supply chain efficiente e ben organizzata comporta un grande vantaggio competitivo, in quanto permette di ottimizzare le risorse a disposizione, evitare gli sprechi ed essere più veloci nel soddisfare le richieste dei clienti. Proprio per questo, non è un caso che sempre più aziende decidano di ricorrere alla gestione in outsourcing della logistica avanzata.
Da dove partire
Per predisporre un tale balzo in avanti esiste già il materiale utile. Tutte le aziende dovrebbero prendere il progetto dell’OCSE per scrivere regole per tassare l’economia digitale molto sul serio perché interesserà tutte le imprese, non solo quelle “digitali”, e l’alternativa è il caos fiscale.
Alcune delle nuove regole imporrebbero alle aziende di raccogliere nuove informazioni e quindi di segnalarle, e ci sarebbe anche un inevitabile impatto significativo sui modelli di business, comprese le catene di approvvigionamento.
Quindi, se sei un manager d’azienda o qualsiasi altro tipo di professionista non fiscale e stai leggendo come i Ministri delle finanze del G20 hanno approvato un programma di lavoro presentato dall’OCSE, inizia a scorrerlo e sulla base degli input ricevuti dai l’ok al cambiamento dell’azienda, anche se il titolo prolisso del progetto, “Sviluppare una soluzione di consenso alle sfide fiscali derivanti dalla digitalizzazione dell’economia”, trasmette la sensazione che questo problema non sia particolarmente rilevante.
Vedi “tasse”, vedi “digitale”, e poi vedi “fine 2020” e pensi che valga solo per le aziende tecnologiche e non è qualcosa di cui ci si deve preoccupare.
E’ l’errore più grande che una società oggi potrebbe fare. Il digitale è un termine improprio. Ecco la realtà: questo progetto ha il potenziale per cambiare drasticamente le norme fiscali internazionali, comportando che la tua azienda paghi più tasse, abbia significativamente più problemi di conformità e venga coinvolta in molte più controversie tra i governi. Ancora più importante, potrebbe rendere il modello di business in uso estremamente poco attraente.
Gli effetti sul business
Il primo è la complessità. Alcune delle nuove misure richiederanno la raccolta e la successiva comunicazione di nuove informazioni. Potrebbe essere necessario riconfigurare i sistemi ERP che raccolgono e gestiscono dati finanziari e di altro tipo.
Potrebbe essere necessario assumere ancora più personale addetto alla conformità. Vi è più pericolo di mancata conformità. Le informazioni sembrano gratuite per i governi, ma non lo sono per gli operatori privati.
E il secondo effetto è sul modello di business. Come mai? Perché una tale trasformazione può travolgere l’organizzazione della catena di approvvigionamento di una società. Può influire sul luogo in cui l’azienda effettua attività ed investimenti in ricerca e sviluppo.
Può influire su dove si svolgono le funzioni di gestione dell’impresa. Può ridurre gli incentivi per investire in determinate giurisdizioni. Può influire sull’equilibrio tra funzioni esternalizzate e non. Potrebbe cambiare le stesse politiche del governo che cercano di incoraggiare determinati tipi di attività economica.
In questo scenario di gran caos, l’azienda tipica potrebbe essere tentata di tornare di corsa al recinto più vicino, sicuro, fuggendo dal mercato visto nella sua nuova configurazione così respingente. Sarebbe la soluzione sbagliata.
L’alternativa a questo progetto articolato, la digitalizzazione fiscalizzata interamente, la BEPS, il CBC reporting, ecc…, non è un ritorno al “modo in cui erano le cose”. Troppo è già cambiato e molto altro ancora a venire.
Quindi, mentre ci sono davvero cose di cui preoccuparsi in questo progetto, l’unico modo per impedire alle aziende di non realizzarsi è prendere questo cambiamento ancora in fieri molto seriamente, proprio ora, avviando il restyling della supply chain, lo strumento migliore per preparare l’azienda al futuro che si va profilando.
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