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Diritto di difesa nel nuovo processo tributario: da tiranno a tirannizzato

Diritto Di Difesa Nel Nuovo Processo Tributario: Da Tiranno A Tirannizzato

Il legislatore che si accinge a riformare un intero settore dell’ordinamento è mosso da una duplice ambizione: segnare una marcata discontinuità rispetto a un assetto disciplinare ritenuto inadeguato e insoddisfacente e scrivere norme che siano in grado di durare per un tempo potenzialmente indefinito.

La riforma del processo tributario di cui al D.Lgs. n. 220/2023 non riesce a centrare il primo obiettivo e, quindi, c’è da sperare che non raggiunga nemmeno il secondo.
La ragione è presto detta: dietro la riscrittura della disciplina del processo si scorge il tentativo di frapporre consistenti ostacoli al compiuto esercizio del diritto di difesa da parte del contribuente. Il legislatore sembra infatti aver preso alla lettera il monito della Corte costituzionale secondo il quale “nessun diritto è tiranno” (sentenza n. 85/2013), procedendo di conseguenza all’opinabile bilanciamento di quest’ultimo, pur perentoriamente descritto come “inviolabile in ogni stato e grado del procedimento” dall’art. 24 della Carta, con l’interesse fiscale all’ottenimento delle imposte al fine di dare copertura alle pubbliche spese (art. 53, comma 1, Cost.).
Il vero e proprio “attacco al processo” a cui stiamo assistendo arriva quindi da due fronti: i) dall’esterno, mediante il continuo potenziamento delle opzioni exit che gli istituti deflattivi garantiscono: non è inutile ricordare che all’abrogazione della mediazione ad opera dell’art. 2, comma 3, lett. a), del D.Lgs. n. 220/2023 fa da contraltare il ripristino della possibilità di definire integralmente il processo verbale di constatazione (nuovo art. 5-quater del D.Lgs. n. 218 del 1997 nella versione prevista dal decreto legislativo sull’accertamento approvato definitivamente dal Consiglio dei Ministri il 25 gennaio) e l’estensione al giudizio di cassazione dell’istituto della conciliazione giudiziale (art. 48, comma 4-bis, del D.Lgs. n. 546/1992); ii) dall’interno, mediante l’introduzione di norme processuali che rendano gli operatori sempre più consci del fatto che la gestione delle cause è tutt’altro che semplice e piana, potendo il difensore cadere in trabocchetti e insidie che impediscono al giudice di giungere alla valutazione completa e serena delle eccezioni e delle prove riversate nel processo.

Qui di seguito quindi qualche esempio, riferito al secondo fronte, nella consapevolezza che le mie considerazioni, ratione temporis ac loci, non possono che essere il punto di partenza per ulteriori approfondimenti e riflessioni.

Il primo esempio: l’attestazione di conformità dei documenti depositati.

Il nuovo art. 25-bis, comma 5-bis, del D.Lgs. n. 546/1992 (di qui in avanti anche il decreto) prevede che “il giudice non tiene conto degli atti e dei documenti su supporto cartaceo dei quali non è depositata nel fascicolo telematico la copia informatica, anche per immagine, munita di attestazione di conformità all’originale”, ciò malgrado sia risaputo che la gran parte dei documenti arriva ai difensori in formato digitale. Sembrerebbe, quindi, che l’avvocato (o il commercialista) sia tenuto a verificare, con enorme dispendio di tempo ed energie in un contesto in cui i tempi dell’impugnazione sono particolarmente ristretti, se quanto ricevuto dai clienti corrisponda agli originali (che andrebbero conservati in fascicolo). Si è di fronte a una norma evidentemente intrisa di sfiducia nei confronti dei difensori, reggendosi la stessa su una sorta di presunzione, manifestamente irragionevole (e, quindi, confliggente anche con l’art. 3 Cost.), di non veridicità delle allegazioni documentali.

Il secondo esempio: la sentenza in forma semplificata nella sola fase cautelare.

Il nuovo art. 47-ter stabilisce che in tutti i casi in cui il giudice ravvisi “la manifesta fondatezza, inammissibilità, improcedibilità e infondatezza del ricorso” (comma 3) ha facoltà di decidere già in fase cautelare con sentenza in forma semplificata (comma 1), la cui motivazione può limitarsi a “un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo ovvero, se del caso, a un precedente conforme” (comma 3). Ebbene, a parte il fatto che la norma costituisce, incredibilmente, un “copia e incolla” dell’art. 60 del Codice del processo amministrativo (D.Lgs. n. 104/2010, di qui in avanti c.p.a.), il che spiega, in un contesto in cui la costituzione in giudizio del ricorrente è condizione di decidibilità dell’istanza cautelare, l’altrimenti incomprensibile inciso “trascorsi almeno venti giorni dall’ultima notificazione del ricorso”, quel che si può immediatamente rilevare è che: i) il rischio dell’abbreviazione del rito costituisce un importante disincentivo all’utilizzo di un istituto decisivo al fine di garantire il pieno esercizio del diritto di difesa, in una situazione in cui si è contemporaneamente assistito al suo potenziamento in ragione della previsione dell’impugnabilità delle ordinanze (nuovo art. 47, comma 4); ii) la norma si pone in evidente conflitto con l’art. 47, comma 2, ultimo periodo, di recente introdotto con l’art. 4, comma 1, lettera f), n. 1 della legge n. 130/2022, il quale, statuendo che “l’udienza di trattazione dell’istanza di sospensione non può, in ogni caso, coincidere con l’udienza di trattazione del merito della controversia”, impedisce la sovrapposizione tra il momento della decisione cautelare e quello della valutazione non delibativa del merito.

Il terzo esempio: il divieto di deposito di nuovi documenti in appello.

Il nuovo art. 58 vieta, a differenza del precedente, il deposito di nuovi documenti in appello, uniformando da questo punto di vista la disciplina del processo tributario a quella del processo civile (art. 345, comma 3, c.p.c.) e del processo amministrativo (art. 104, comma 2, c.p.a.). Si tratta tuttavia di una differenza che si giustificava non tanto in ragione dell’evidenziata (dalla Corte costituzionale, sentenza n. 199 del 2017) insussistenza di un principio di conformità tra processi, ben potendo il legislatore, seppur nel rispetto del principio di ragionevolezza, discrezionalmente differenziarli, ma piuttosto per l’estrema esiguità della fase istruttoria di un processo ad unica udienza qual è quello tributario: è certamente da preferirsi dunque, pur sempre nell’ambito del divieto dei nova in appello, che il giudice abbia a disposizione la documentazione che gli consenta di decidere il caso concreto senza che improvvidi impacci impediscano l’emersione dei fatti risultante dai documenti. Se questa è la logica della deroga a cui siamo abituati da decenni, eliminarla è forse un modo di migliorare il rapporto di fiducia tra contribuente e fisco? Per non dire del circolo vizioso che potrebbe crearsi nel caso in cui il giudice, magari sulla base di un discutibile precedente, si abbandoni alla tentazione dell’abbreviazione in una fase, qual è quella cautelare, in cui potrebbe non essersi ancora data piena attuazione al programma difensivo: di qui, si tratta di risultato abnorme e quindi irragionevole, l’impossibilità di rimediare all’insufficiente allegazione documentale al ricorso introduttivo del giudizio.

Il quarto esempio: il divieto di deposito delle deleghe e delle procure in appello.

Il medesimo art. 58, al terzo comma, prevede che “non è mai consentito il deposito delle deleghe, delle procure e degli altri atti di conferimento di potere rilevanti ai fini della legittimità della sottoscrizione degli atti, delle notifiche dell’atto impugnato ovvero degli atti che ne costituiscono presupposto di legittimità che possono essere prodotti in primo grado anche ai sensi dell’articolo 14 comma 6-bis”. Anche qui, perché derogare all’art. 182, comma 2, c.p.c., la cui applicazione nel processo tributario è espressamente sancita dall’art. 12, ultimo comma, del decreto? Il legislatore della riforma vuole che il giudice valuti il merito o preferisce forse che si fermi prima ogni volta che si possa, in modo da far acquisire alle esangui casse erariali quel che esse reclamano per tenere in piedi le sempre precarie finanze pubbliche?

Conclusioni, nella prospettiva della giustizia predittiva.

Il decreto sul processo costituisce un autentico passaggio a vuoto. Ma non è tutto: esso si inserisce in una situazione dominata dalle sinistre suggestioni dell’intelligenza artificiale e della giustizia predittiva che su di essa dovrebbe imperniarsi. Si assiste infatti a una smodata (e neopositivistica) fiducia nella macchina, che sarà, in tesi, in grado di fornire al giudice (bozze di) sentenze uniformizzate e uniformizzanti, così riducendo i tempi del lavoro (e, quindi, anche dell’analisi e del ragionamento). Emerge quindi una grande sfiducia nella persona, che pure è al centro, nell’era della digitalizzazione come nel 1948, del progetto costituzionale. Per il diritto di difesa non solo un triste presente, ma anche prospettive sempre più fosche: la speranza è che arrivi un giorno in cui ci si renderà conto che, come il Video Assistant Referee (VAR) non ha risolto le incertezze collegate alla concessione dei calci di rigore, per certi versi accentuandole, nemmeno l’intelligenza artificiale potrà ricondurre l’infinita varietà dei casi con cui i giudici sono ogni giorno obbligati a confrontarsi a schemi e categorie precisi, netti, oggettivamente delineati e, quindi, giusti.

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