Fra le molte “sorprese normative” che riserva la recente revisione dello
Statuto dei diritti del contribuente,
non tutte sembrano contribuire a realizzare quel “
rafforzamento della
certezza del diritto” (cfr. Relazione illustrativa al
D.Lgs. n. 219 del 30 dicembre 2023) che l’Esecutivo si è posto come obiettivo espresso della sua azione di “riforma” (o – più propriamente – di
“controriforma”, come l’ha definita il
prof. Cesare Glendi nell’Editoriale del 10 febbraio scorso, “
Dal “processo” al “contenzioso”: la contro-riforma fiscale”).
Rispetto alla finalità di consacrare allo Statuto dei contribuenti la funzione di orientare l’interpretazione di tutte le norme tributarie, singolare appare la scelta di introdurre una disposizione del seguente tenore: “Le norme [“nonne” nel testo pubblicato in Gazzetta Ufficiale!] tributarie impositive che recano la disciplina del presupposto tributario e dei soggetti passivi si applicano esclusivamente ai casi e ai tempi in esse considerati”.
Tale regola, contemplata nel nuovo comma 4-bis dell’art. 2 dello Statuto ed entrata in vigore lo scorso 18 gennaio, ancorché diretta “nell’intendimento del Governo ad escludere la possibilità di interpretazione analogica delle norme tributarie” (Relazione del 30 novembre 2023 allo Schema di decreto legislativo recante modifiche allo Statuto), rischia di legittimare delle scelte applicative disomogenee e di disorientare gli operatori rispetto ad una questione teorico-pratica molto delicata, quale quella del ricorso in materia tributaria all’istituto duttile dell’interpretazione analogica.
Volendo procedere con “spirito di geometria”, un primo elemento di eccentricità si può cogliere nella collocazione della novella: per quale ragione un’istruzione rivolta a coloro che “applicano” le norme (ossia i contribuenti, l’Amministrazione finanziaria e i giudici) è stata inserita all’interno di una disposizione dedicata alla “Chiarezza e trasparenza delle disposizioni tributarie” (come recita la rubrica dell’art. 2 dello Statuto) e che, quindi, finora ha sempre interessato esclusivamente le regole e i criteri del drafting legislativo?
Che il nuovo comma 4-bis dell’art. 2 dello Statuto non costituisca affatto una meta-norma (rivolta a chi produce testi normativi), quanto una regola sull’integrazione del dettato di norme di legge già emanate, emerge dal contenuto precettivo che pare desumersi dalla scelta di codificare un divieto di analogia: “la disciplina del presupposto tributario e dei soggetti passivi” non va applicata oltre i “casi” e i “tempi” previsti dalla legge stessa.
Bizzarro è che il legislatore delegato abbia interdetto il ricorso al procedimento analogico con riferimento alle sole norme di diritto sostanziale che definiscono i soggetti d’imposta e il fatto imponibile.
Ragionando
a contrario, si dovrà ritenere consentita l’interpretazione per analogia di tutte quelle (numerose) norme impositrici che individuano la base imponibile e la misura del tributo? Se si accederà
nella prassi a questa opzione, si realizzerà un
effetto che, ancorché autorizzato dalla lettera della novella, appare
inaccettabile, considerato che queste
ultime norme sono – allo stesso modo delle prime –
soggette al principio di
riserva di legge fissato dall’
art. 23 della Costituzione, che esige che tutti gli elementi essenziali del tributo (fra i quali, ovviamente, i criteri di individuazione del
quantum) abbiano sempre – perlomeno – una “base” legislativa (cfr.
Corte cost., 28 dicembre 2001, n. 435). Sarebbe, del resto,
irrazionale pretendere
“a monte” dal legislatore la fissazione di
criteri e limiti (di natura oggettiva o tecnica) atti a vincolare la determinazione quantitativa dell’imposizione, se poi
“a valle” si consentisse all’Amministrazione finanziaria e al giudice di
applicare le
regole sulla base imponibile al di fuori delle ipotesi definite in via esclusiva dal primo.
Difficile, inoltre, si rivela in molti casi la
distinzione a priori fra n
orma sul presupposto d’imposta e
norma sulla base imponibile. Infatti, il Testo Unico delle imposte sui redditi rivela che – al di là della differenziazione che può essere agevolmente tracciata fra l’art. 1 e l’
art. 3 del
TUIR, grazie alla rubrica delle due disposizioni (rispettivamente “Presupposto dell’imposta” e “Base imponibile”) – l’
individuazione delle
fattispecie tributarie è in realtà demandata a norme che, nel definire le singole categorie di reddito,
combinano inscindibilmente il
fatto generatore che fa sorgere l’obbligazione tributaria con le
regole di quantificazione della stessa.
Ancora: l’
art. 2 del
TUIR (rubricato “Soggetti passivi”) non solo individua nelle “persone fisiche, residenti e non residenti nel territorio dello Stato” i
soggetti a cui
imputare la
tassazione reddituale, ma, nel codificare – come noto – la nozione di “residenza fiscale”, fissa un
criterio di determinazione della
base imponibile che fornisce un’indicazione sostanziale su
come calcolare il
reddito prodotto dal residente (
i.e. tassazione su base mondiale) e dal
non residente (
i.e. tassazione su base territoriale).
Pertanto, dal punto di vista semantico, il riferimento approssimativo alla “disciplina del presupposto tributario e dei soggetti passivi” rischia di creare incertezza applicativa in merito all’individuazione delle ipotesi oggetto del divieto in discorso.
Meglio, dunque, avrebbe fatto il legislatore delegato a prevedere che tutte le norme tributarie impositrici non devono essere applicate a fattispecie diverse da quella “globalmente” tipizzata, quanto a soggetto passivo, presupposto e base imponibile. Se una legge omette di assoggettare a tassazione (o di sanzionare) un caso simile a quello tassato (o sanzionato), la scelta ideologica del legislatore non può essere superata dall’interprete, per la (banale) considerazione che mancano i presupposti dell’analogia, ossia perché non c’è alcun “vuoto” da riempire. Una lacuna “in senso tecnico” può, invece, essere riscontrata nella disciplina procedimentale che concerne l’attuazione dei tributi. Ma su questi profili la novella non interviene.
Un’ulteriore
conseguenza incongrua derivante dall’introdotto
divieto specifico di analogia riguarda la
disattivazione nel
settore tributario degli
artt. 12 e seguenti delle disposizioni preliminari al
codice civile, a cui sinora la giurisprudenza e la prassi si sono riportate per decidere se, rispetto ad una fattispecie concreta che non risulta regolamentata, sia possibile
dare applicazione a “disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe” o – se il caso rimane ancora dubbio – ai “principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato”.
Poiché le leggi “che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati” (
art. 14 delle Preleggi al codice civile), la
giurisprudenza di legittimità ha sinora ritenuto totalmente precluso l’utilizzo dell’integrazione analogica per quelle norme che attribuiscono benefici fiscali ai contribuenti, in quanto presentano una natura derogatoria rispetto a regimi fiscali assunti come generali (
e.g. Cass., 20 maggio 2016, n. 10481). Contrariamente a questo indirizzo giurisprudenziale, potranno le
norme di esenzione essere applicate
a casi non espressamente previsti dalla
disciplina di favore, valorizzando il fatto che il nuovo divieto concerne testualmente le
sole norme “impositive”? Oppure il
divieto di analogia dovrà essere
esteso – per analogia – anche alle
norme agevolative, che -allo stesso modo delle norme impositrici – concorrono alla determinazione del “giusto” onere fiscale?
L’analogia serve a correggere le imperfezioni normative.
Sfortunatamente, il ricorso a questo istituto non sarà, però, sufficiente ad arginare possibili applicazioni improvvide del nuovo comma 4-bis dell’art. 2 dello Statuto dei diritti del contribuente, derivanti dalla scadente qualità della sua formulazione.
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