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Gli accordi transattivi si liberano del limite annuale per l’emissione della nota di credito IVA?

Gli Accordi Transattivi Si Liberano Del Limite Annuale Per L’emissione Della Nota Di Credito Iva?
Secondo l’opinione prevalente, avallata dalla giurisprudenza nazionale e condivisa dalla prassi amministrativa, l’art. 26, comma 3, D.P.R. n. 633/1972 assumerebbe una portata generale destinata a regolare tutte le transazioni compresa, pertanto, anche quella che si è perfezionata nella vicenda esaminata nell’interpello in esame fra il fornitore della consulenza e il cliente che l’ha ricevuta.

La vicenda oggetto dell’interpello

Quest’ultimo, in particolare, dopo aver contestato l’importo fatturato (762.579,89 euro, di cui 137.514,41 euro per IVA) “mai pagato perché prontamente contestato dapprima per vie legali e poi in sede di contenzioso”, ha successivamente rideterminato tale somma con il fornitore, in via transattiva, nel valore di 70.000 euro, di cui 12.622,94 euro a titolo di IVA.

In questo contesto, in cui si inserisce l’impossibilità per il fornitore di correggere le fatture emesse con la nota di variazione essendo ormai trascorso il termine di un anno dall’esecuzione della consulenza, è legittimo per il cliente porsi il dubbio sul quantum della detrazione, precisamente, se l’imposta sia detraibile nella misura astratta, cioè fatturata, oppure nella misura concreta, vale a dire risultante dalla transazione.

A questa seconda ipotesi ha aderito l’Agenzia delle Entrate affermando, nella risposta a interpello, che il cliente potrà portare in detrazione il solo importo di 12.622,94 euro, ossia la sola IVA derivante dall’accordo transattivo, perchè “imposta effettivamente dovuta”.

Le indicazioni della giurisprudenza

Tale conclusione si appoggia sulle indicazioni della Cassazione, la quale ammette la detrazione dell’imposta che, in quanto correttamente addebitata in fattura, risulta perfettamente sincronizzata con l’IVA a debito dovuta dal fornitore (cfr. art. 167 della direttiva n. 2006/112/CE, secondo cui “Il diritto a detrazione sorge quando l’imposta detraibile diventa esigibile”).

La detrazione – seguendo la logica della Suprema Corte – è, dunque, riconosciuta se collegata all’esigibilità ordinaria riferita alle situazioni fisiologiche in cui, per usare le stesse parole dell’Agenzia delle Entrate, “c’è corrispondenza tra il valore del bene/prestazione concretamente ricevuta e il corrispettivo dovuto”.

In tal caso, la rilevanza IVA dell’operazione si forma in modo progressivo, dapprima con l’esecuzione materiale del servizio (cd. fatto generatore, ex art. 3, D.P.R. n. 633/1972), poi con il pagamento del corrispettivo che determina il momento in cui l’erario può riscuotere l’IVA dal fornitore (cd. esigibilità ordinaria, ex art. 6, comma 3, D.P.R. n. 633/1972).
Questa impostazione ha come naturale corollario l’indetraibilità dell’IVA correlata all’esigibilità “straordinaria”, per tale intendendosi quella che impone al fornitore di versare all’Erario l’imposta erroneamente fatturata, a prescindere dalla circostanza che la detrazione a valle sia riconosciuta o negata, al verificarsi delle ipotesi patologiche – non necessariamente derivanti da un illecito – indicate dall’art. 21, comma 7, del decreto IVA (operazioni inesistenti, corrispettivo o imposta superiori al loro reale valore).

La soluzione dell’Agenzia delle Entrate. E i possibili effetti

Quindi, ritornando alla risposta a interpello n. 426 del 2023, l’Agenzia delle Entrate, da un lato, ha ridotto l’importo della detrazione in capo al cliente in misura pari all’ammontare dell’imposta dovuta dal fornitore come indicata nella transazione (esigibilità ordinaria): dall’altro, ha ritenuto indetraibile l’IVA esposta nelle fatture (esigibilità straordinaria) non esistendo, in tale ipotesi, una “corrispondenza tra rappresentazione cartolare e reale operazione economica”.
Ciò posto, occorre domandarsi quali siano le ricadute immediate di questa soluzione sul fornitore della consulenza che, come precisato dall’estensore della risposta, “non sembra avere mai assolto l’IVA addebitata in via di rivalsa nelle fatture di cui si discute, sebbene obbligato ex articolo 6, comma 4, del decreto IVA.”.
La precisazione lascia intendere che il fornitore, stante l’intangibilità delle fatture non potendo avvalersi dello strumento della nota di credito, deve prima versare all’Erario tutta l’IVA a debito risultante dalle medesime fatture (137.514,41 euro) e, poi, chiedere all’ente impositore il rimborso (ex art. 30-ter, D.P.R. n. 633/1972) della quota parte di IVA indebitamente fatturata (124.891,47 euro).

Ma questo ritorno a una macchinosa procedura di solve et repete non è, ovviamente, conforme ai principi generali del sistema IVA, quali la neutralità, l’effettività e la proporzionalità.

È evidente lo svantaggio concorrenziale ed economico procurato al fornitore in buona fede costretto ad anticipare l’IVA erroneamente fatturata all’Erario per, poi, cercare di recuperarla con strumenti meno agevoli della nota di credito e, dunque, tutt’altro che rapidi: senza, peraltro, avere alcuna certezza sulla tempistica e, soprattutto, neanche sull’effettiva restituzione del rimborso tenuto conto che la prassi amministrativa offre una lettura troppo restrittiva degli articoli 26 e 30-ter del D.P.R. n. 633/1972.

La soluzione dell’AIDC

Eppure, a ben vedere, tutte queste significative criticità sono state affrontate e risolte, in modo ineccepibile, dall’AIDC con la Norma di comportamento n. 222/2023. La quale, adeguandosi alle indicazioni della giurisprudenza europea in materia di rimborso e rettifica della base imponibile, ha prospettato un’interpretazione evolutiva del citato art. 26, commi 2 e 3, che, finalmente, libera dal “giogo” del limite annuale “[l’]accordo transattivo a composizione di una documentata controversia, anche solo potenziale, riguardante il corretto adempimento delle obbligazioni contrattuali assunte dal cedente del bene o dal prestatore del servizio […]”. Sicché, in queste ipotesi, la nota di credito può essere emessa anche oltre il termine annuale. Mentre, resta il divieto di “emissione della nota di credito in caso di sopravvenuto accordo tra le parti” qualora, “in assenza di qualsiasi contestazione in merito all’esecuzione del contratto”, “le parti decidono di variarne i termini di comune accordo”.

La mirabile ricostruzione argomentativa dell’AIDC ha come irrinunciabile obiettivo l’essenziale ricerca di quel difficile, quanto delicato, equilibrio fra le contrapposte esigenze di tutela dell’Erario e degli operatori economici.

Tant’è che, ai fini della qualificazione degli accordi transattivi nelle figure “simili” (comma 2, senza limite temporale), è dirimente che tali transazioni, a differenza di un “semplice accordo di mutuo dissenso fra le parti” (comma 3, con limite temporale di un anno), siano “circondate da particolari garanzie circa l’effettiva esistenza delle cause determinanti l’estinzione o la modifica del contratto.”.

Tali “garanzie”, infatti, proteggono lo Stato dalle eventuali condotte abusive o fraudolente considerato che, come giustamente osservato dall’AIDC, “la trasmissione elettronica delle note di variazione IVA” può rappresentare “un rilevantissimo presidio rispetto agli eventuali abusi, il quale va ad aggiungersi agli elementi documentali, che le parti sono tenuti a conservare, comprovanti le contestazioni che hanno indotto alla variazione IVA.”.

È, quindi, possibile adottare la linea interpretativa dell’AIDC nella vicenda dell’istanza di interpello in esame, con la conseguenza che il fornitore, oltre l’anno dall’esecuzione della consulenza, è legittimato a correggere, attraverso la nota di credito, l’IVA erroneamente fatturata in modo da riallineare l’imposta da esso dovuta con quella detratta dal cliente in piena sintonia con i principi di effettività, neutralità e proporzionalità.

Non solo, ma tale riallineamento contabile è coerente con l’art. 203 della direttiva n. 2006/112/CE, recepito a livello nazionale dall’art. 21, comma 7, D.P.R. n. 633/1972, il quale “non costituisce una mera “norma antifrode”, bensì assicura altresì la coincidenza della detrazione esercitata sulla base di una fattura e il debito d’imposta risultante da una fattura”. (cfr. conclusioni 8 luglio 2021 presentate nella Causa C?156/20, Zipvit Ltd). Questa illuminante puntualizzazione dell’Avvocato generale J. Kokott rafforza la tesi, più volte sostenuta dai giudici europei, secondo cui l’art. 21 comma 7 non intende punire il fornitore con una sanzione impropria, bensì semplicemente impedire che lo stesso fornitore possa non versare l’IVA all’Erario, in quanto erroneamente fatturata, quando il cliente abbia operato la detrazione (Cfr., CGUE, EN.SA., C?712/17).

Si vuole, pertanto, scongiurare il danno erariale evitando che lo Stato riconosca al cliente una detrazione per un’imposta che, però, il fornitore non corrisponde all’Erario.

Da ciò si trae conferma del fatto che, se viene eliminato il rischio di perdita del gettito fiscale, il fornitore ha diritto di recuperare l’IVA erroneamente fatturata – proprio perché l’imposta “dovuta” ex art. 21 comma 7 non ha natura sanzionatoria – anche attraverso l’emissione della nota di credito che, come nel caso dell’interpello in esame, consente un perfetto riallineamento fra il debito nella sfera del fornitore verso l’Erario e il corrispondente credito nella sfera del cliente.

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