Il potere di autotutela nel mirino del creazionismo giudiziario

Nella sentenza del 21 novembre 2024, n. 30051, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, dopo aver ricostruito l’esistenza nell’ordinamento del principio di perennità, hanno fatto discendere quale corollario di esso la regola secondo cui l’Amministrazione finanziaria, a seguito dell’emissione di un atto impositivo, conserverebbe il potere di annullarlo e, sulla base di un diverso apprezzamento dei medesimi elementi posti a suo fondamento, emettere un nuovo avviso recante una maggiore pretesa impositiva. La regola così sancita, tuttavia, non solo sembra priva di un solido ancoraggio legislativo, ma, a ben vedere, stride apertamente con la normativa positiva, da cui traspare la voluntas legis di precludere agli Uffici la possibilità di esercitare in malam partem il potere di autotutela. Un rimarchevole esempio, dunque, di come sia urgente porre al centro delle riflessioni la sempre più disinvolta tendenza dei giudici di vertice a farsi creatori del diritto.

La già controversa sentenza della Corte di cassazione a Sezioni Unite sul potere di autotutela (21 novembre 2024, n. 30051) è di grande interesse per le ragioni che qui di seguito si espongono.

Il caso. L’Agenzia delle Entrate, a seguito di indagini finanziarie in cui si erano erroneamente ritenuti giustificati alcuni dei movimenti di conto corrente sottoposti a controllo, notificava un primo avviso di accertamento, oggetto di impugnazione da parte del contribuente. Successivamente, nel corso del giudizio, l’ufficio, dopo aver annullato l’atto, emetteva un nuovo avviso emendato dall’errore commesso in prima battuta. Di qui l’ulteriore impugnativa di parte privata, la quale eccepiva, in relazione al nuovo avviso: i) che l’autotutela in malam partem può essere legittimamente esercitata solamente con riferimento ai vizi formali dell’atto; ii) che osta alla reiterazione del provvedimento impositivo a danno del contribuente la disciplina dell’accertamento integrativo (articoli 43, comma 3, del D.P.R. n. 600 del 1973 e 57, comma 4, del D.P.R. n. 633 del 1972), la quale subordina la possibilità della modifica in aumento dell’accertamento alla “sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi”.
Le Sezioni Unite hanno condiviso le posizioni assunte dalla giurisprudenza maggioritaria formatasi sulla disciplina dell’autotutela previgente all’intervento riformatore di cui al D.Lgs. n. 219 del 2023 (art. 2-quater del D.L. n. 564 del 1994 e D.M. n. 37 del 1997, oggi sostituiti dagli articoli 10-quater e 10-quinquies del novellato Statuto dei diritti del contribuente): il potere di annullamento può (anzi deve) essere esercitato in malam partem con riferimento ai vizi non solo formali dell’atto impositivo (vd. le sentenze citate al par. 4 delle “Ragioni della decisione”).
Depone in tal senso, secondo la Suprema Corte, il fondamento costituzionale del potere di autotutela, che promana, al pari della potestà impositiva, dagli artt. 2, 23, 53 e 97 Cost., su cui si reggerebbe, a sua volta, il c.d. principio di perennità: “il potere dell’Amministrazione persiste anche dopo essere stato esercitato e assolve all’esigenza di assicurare la continua e puntuale aderenza dell’azione amministrativa all’interesse pubblico, nella specie costituito dall’interesse a reperire le entrate fiscali (legittime)” (par. 11). L’autotutela, così configurata, “non costituisce uno strumento di protezione del contribuente” (par. 17.4), riguarda anche i vizi sostanziali e non solo quelli formali e deve condurre, nei limiti temporali previsti per l’esercizio del potere accertativo, alla sostituzione dell’atto impositivo recante una richiesta illegittimamente inferiore.
Né si potrebbe giungere a conclusioni diverse (quelle a cui addiviene l’Amministrazione finanziaria nella recente circolare n. 21/E/2024, come osservato da M. Basilavecchia, “Agenzia delle Entrate e Sezioni Unite sull’autotutela tributaria corrono su binari paralleli?”) a seguito del confronto dell’istituto così tratteggiato con la disciplina positiva. La Corte, infatti, sottolinea la radicale differenza dell’autotutela sostitutiva rispetto all’accertamento integrativo che, proprio in ragione di essa, non sarebbe in grado di limitarne l’operatività: in sede di autotutela, sostengono gli Ermellini, si annulla un atto impositivo in ragione della diversa e successiva valutazione degli elementi su cui esso si fonda, sostituendolo con un altro, corretto dai vizi; nell’integrativo si affianca al primo un ulteriore avviso che modifica in aumento quello originario, che resta comunque valido ed efficace.
Né può ritenersi che la sostituzione dell’atto impositivo nei termini suddetti collida con la tutela del legittimo affidamento del contribuente, giacché esso “non è integrato dalla mera esistenza del precedente atto viziato ovvero dall’errata valutazione delle circostanze poste a suo fondamento, ostandovi il generale dovere di concorrere alle pubbliche spese in ragione della capacità contributiva in forza degli articoli 2 e 53 Cost.” (par. 21, terzo principio di diritto).
Non aiuta, infine, neanche la recente riforma: il divieto di ne bis in idem nel procedimento tributario [art. 9-bis dello Statuto dei diritti del contribuente, introdotto dall’art. 1, comma 1, lett. i), del D.Lgs. n. 219 del 2023, il quale dispone che “salvo che specifiche disposizioni prevedano diversamente e ferma l’emendabilità di vizi formali e procedurali, il contribuente ha diritto a che l’amministrazione finanziaria eserciti l’azione accertativa relativamente a ciascun tributo una sola volta per ogni periodo di imposta”] mira principalmente, secondo le Sezioni Unite, a evitare i rischi della doppia imposizione sul medesimo presupposto e, in ogni caso, risulta estraneo ai meccanismi dell’autotutela: essi non si manifestano sotto forma di reiterazione dell’azione accertativa, rimanendo quest’ultima sempre e solo quella originaria, “ancorata agli elementi di fatto e ai presupposti esistenti al momento del primo atto” (par. 16.5).

I contenuti dell’articolata pronuncia, qui riassunti in estrema sintesi, destano notevoli perplessità. Ne indichiamo, dati i limiti di spazio, tre.

La prima riguarda la teorizzata diversità strutturale tra autotutela e accertamento integrativo. La tesi dell’esistenza di un diverso ambito operativo dei due istituti non riesce a convincere perché si fonda su una petizione di principio, quella secondo cui nell’autotutela non si assisterebbe, a differenza di quel che accade nell’accertamento integrativo, alla reiterazione dell’azione accertativa e dell’atto impositivo, con conseguente inapplicabilità a essa del limite della “sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi” positivamente stabilito. Ora, perché non dovrebbe considerarsi “nuova” l’azione accertatrice che, per restare ai fatti di causa, apprezza diversamente gli elementi già esaminati una prima volta nel corso del procedimento amministrativo, così supplendo alle precedenti manchevolezze? Perché l’atto sostitutivo non dovrebbe considerarsi “nuovo” rispetto a quello originario? Che significato può attribuirsi alla prescritta condizione limitativa, se non quello di impedire l’emissione di nuovi avvisi, quali indiscutibilmente sono anche quelli sostitutivi, che si fondano su una diversa valutazione del medesimo materiale istruttorio?

L’insostenibilità della ricordata tesi, è la seconda perplessità, si può apprezzare, se possibile con ancora maggiore evidenza, a fronte del nuovo art. 9-bis dello Statuto del Contribuente, il quale risulta chiaramente finalizzato a vietare l’autotutela in malam partem. Secondo la citata disposizione, infatti, l’inibizione alla reiterazione dell’azione accertativa non opera in sede di rettifica dei vizi formali e procedurali, con la conseguenza che, di fronte a essi, l’Amministrazione potrà/dovrà annullare l’accertamento e riemetterlo emendato dall’errore. Ciò però vuol dire, allo stesso tempo, che, in tutti gli altri casi (atti inficiati da vizi di carattere sostanziale), fatto salvo quanto previsto da specifiche norme, tale possibilità (che poi null’altro è se non l’autotutela sostitutiva) non sussiste. Non si può quindi nemmeno sostenere, come fa la Corte confrontando l’autotutela con l’integrativo, che la fattispecie di cui all’art. 9-bis sarebbe diversa da quella immaginata dai Supremi giudici per il sol fatto che nell’un caso (integrativo) convivono l’atto originario e quello sostitutivo, nel secondo (autotutela) no: qui la coesistenza non sussiste limitatamente all’eccezione consentita (vizi formali e procedurali), sicché non si può seriamente sostenere che si manifesti per quelle situazioni, connesse alla presenza di vizi sostanziali, che la norma vieta. Chiaramente votato all’insuccesso, infine, il tentativo di sostenere che la nuova disposizione statutaria sarebbe stata introdotta principalmente al fine di scongiurare i rischi di doppia imposizione sullo stesso presupposto, posto che nel contesto ordinamentale vigente già esistono altre due disposizioni che sono funzionali al conseguimento dell’anzidetto risultato, gli articoli 67 del D.P.R. n. 600 del 1973 e 163 del TUIR.

La terza criticità, forse la più importante, è di ordine metodologico, e attiene alla modalità attraverso cui gli Ermellini sono addivenuti a ricostruire il diritto da applicare per risolvere la controversia. La Corte non muove dalla disciplina positiva dell’autotutela, che pure, lo si riconosce, “appare orientata, in prevalenza, a consentire l’emersione delle ipotesi di illegittimità dell’atto impositivo in danno del contribuente” (par. 14), per interpretarla alla luce dei principi costituzionali, ma, con un movimento contrario, prima “costruisce” l’istituto per come dovrebbe essere qualora fosse pienamente conforme a Costituzione, e poi verifica se il modello delineato risulti già disciplinato dal legislatore. La risposta al peculiare test, come abbiamo visto, è negativa, sicché l’autotutela sostitutiva, per come disegnata dal giudice, sopravvive proprio perché, nell’idea della Corte, che l’ha discrezionalmente creata, non è sovrapponibile a nessuno degli istituti già esistenti a livello normativo, la cui disciplina, pertanto, non è in grado di limitarne l’operatività. Eppure, per dirla con Natalino Irti, il testo normativo dovrebbe essere insieme “punto di partenza e punto di arrivo, perché nulla è al di sotto o al di sopra di esso: tutto è dentro il suo cerchio” (I “cancelli delle parole” in Un diritto incalcolabile, Torino, 2016, p. 69).

Né si dica che, così criticando, non si attribuisce la dovuta cogenza ai principi costituzionali, impedendo che essi si concretizzino in regole pienamente operative nell’ordinamento. L’argomento, pur suggestivo, è infondato, a voler far riferimento al caso di specie, anzitutto perché tra i parametri costituzionali da cui discenderebbe il c.d. principio di perennità, e, quindi, la richiamata autotutela sostitutiva, spicca, ma solo per la sua assenza, il diritto alla difesa, e ciò malgrado si possa nutrire più di qualche dubbio sulla conformità all’art. 24 Cost. di una situazione in cui è consentito all’Amministrazione di sostituire reiteratamente gli atti impositivi la cui illegittimità sia stata evidenziata dal contribuente nei propri atti difensivi. Ma non solo, anche le norme costituzionali selezionate sono valorizzate in modo più che discutibile: è veramente rispettato l’art. 97 Cost. in un contesto in cui gli Uffici finanziari possono contare sulla possibilità di porre rimedio alla propria superficialità e approssimazione grazie all’autotutela sostitutiva in malam partem?

Di qui le conclusioni, rapide, come rapido è questo scritto.

La sentenza delle Sezioni Unite costituisce rimarchevole esempio della tendenza, sempre più consapevole, dei giudici di vertice a sacrificare le norme positive sull’altare di un discrezionale principialismo che, andando ben al di là dell’interpretazione costituzionalmente orientata, conduce alla creazione del diritto, e, quindi, come ha ben rilevato Luigi Ferrajoli (Contro il creazionismo giudiziario, Modena, 2018, p.14), a esiti incompatibili con quelli derivanti dall’argomentazione interpretativa a cui è tenuto il giudice.

La Corte, occorre che lo si evidenzi, ha tentato di riscrivere la legge, non solo quella che si applica ai fatti oggetto di causa, l’unica per il vero che era chiamata a interpretare, ma anche quella sopravvenuta, nel tentativo di “disinnescare” una delle disposizioni più interessanti dell’intera riforma fiscale, quella sul divieto del ne bis in idem nel procedimento tributario.

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