La Corte di Giustizia UE rimette in discussione le modalità di rimborso dell’IVA ai soggetti passivi

Il caso specifico all’esame della Corte UE riguarda una società italiana considerata non operativa in quanto ha dichiarato dei ricavi di ammontare inferiore alla soglia stabilita dal citato art. 30. Quale conseguenza, è stato negato il diritto al rimborso dell’IVA portata a nuovo nel periodo d’imposta 2009, in quanto i ricavi dichiarati risultavano inferiori all’anzidetta soglia anche per i tre periodi d’imposta precedenti.

Cosa prevede la normativa italiana

In estrema sintesi, la norma prevede che il mancato raggiungimento di un ammontare minimo annuale di ricavi soggetti ad IVA, calcolato in base ad un rapporto percentuale con alcuni elementi dell’attivo di bilancio classifica automaticamente tali società od enti quali soggetti a rischio fiscale e, dunque, meritevoli di provvedimenti inibitori – ai fini IVA – del diritto di poter recuperare l’imposta a credito. Seppure gli effetti negativi della norma vengano mitigati dalla possibilità per il contribuente di dimostrare che la soglia minima non si stata raggiunta per ragioni oggettive, nella sostanza si tratta di una disposizione dal contenuto contrario ai principi generali che governano il meccanismo di applicazione dell’IVA.

Al riguardo, è da osservare che a tali soggetti viene negato tout court il diritto al rimborso e alla compensazione orizzontale del credito IVA risultante dalla dichiarazione obbligandoli a riportare a all’anno successivo tale credito, con la precisazione che, qualora i ricavi siano sottosoglia per tre periodi d’imposta consecutivi, viene preclusa anche la compensazione verticale (IVA su IVA).

È proprio quest’ultima previsione che rende evidente l’effetto sostanziale della norma che, dapprima si presenta come un mero rinvio all’anno successivo dell’imposta rimborsabile ma che, con il compimento del triennio, diventa definitivamente non recuperabile e dunque con effetti identici alla indetraibilità dell’imposta.

In altri termini, il reiterarsi del mancato raggiungimento della soglia minima di ricavi determina una parziale negazione della soggettività passiva ai fini IVA, con buona pace del principio di neutralità dell’imposta.

I punti esaminati dalla Corte UE

Tuttavia, dapprima la Corte di Cassazione con l’ordinanza di rinvio, e poi la stessa Corte di Giustizia con la sentenza de qua, individuano con precisione il vulnus della norma rispetto ai principi regolatori dell’IVA.

In primo luogo, viene esaminato l’art. 9 della direttiva n. 2006/112/CE il quale stabilisce che si considera “soggetto passivo” chiunque eserciti un’attività economica, indipendentemente dallo scopo o dai risultati di detta attività. Ne discende il carattere oggettivo di detta attività, la cui rilevanza ai fini del riconoscimento della soggettività passiva non può essere subordinata ad alcun elemento di carattere quantitativo, come il volume di ricavi che possono ragionevolmente attendersi da essa (sul punto si veda sentenza del 22 ottobre 2015, causa C-126/14).

Premesso, dunque, che la qualifica di soggetto passivo IVA sussiste a prescindere dalla quantità di ricavi conseguiti, la Corte di Giustizia prosegue con l’esame della seconda questione, riguardante la legittimità del generale diniego del diritto alla detrazione dell’IVA sugli acquisti previsto in capo alle società c.d. non operative.

È ormai chiaro che il diritto alla detrazione immediata e integrale dell’IVA assolta sugli acquisti costituisce un principio fondamentale del sistema comune dell’IVA, teso a garantire la perfetta neutralità del tributo. Esso spetta al soggetto passivo a condizione che sussista un nesso diretto e immediato, o anche indiretto (spese generali), tra gli acquisti e le operazioni attive soggette ad IVA da esso effettuate.

Tale diritto, in presenza di tutte le condizioni sostanziali normativamente previste, non può essere soggetto a limitazioni di alcun tipo, a meno che, ovviamente, non sia dimostrato, alla luce di elementi oggettivi, che esso sia stato invocato in un contesto di frode o evasione.

È interessante osservare che la Corte esamina l’art. 30, comma 4, legge n. 724/1994, alla luce dei principi sottesi all’esercizio del diritto di detrazione dell’imposta (art. 167 della direttiva) seppure la norma italiana si applichi alla modalità di rimborso dell’imposta annuale. Non si tratta di un errore, bensì della corretta qualificazione del rimborso IVA effetto concreto della detrazione, laddove le operazioni attive non abbiano generato un ammontare di imposta sufficiente a compensare l’IVA sugli acquisti. Il naturale corollario di questo principio è che le modalità con le quali gli Stati membri devono garantire la restituzione del tributo corrisposto in eccesso devono rispettare le disposizioni riguardanti il diritto di detrazione.

A questo riguardo, seppure gli Stati membri possano adottare misure di contrasto all’evasione esse non devono eccedere quanto necessario per conseguire tale obbiettivo e non devono comprimere del tutto il diritto alla detrazione e, per l’effetto, la neutralità dell’IVA.

In questo contesto, i Giudici unionali, sconfessando il parere espresso dalla Commissione Europea nel 2010 che aveva dato luce verde all’art. 30 (P 9064/2010 GU 2011, C 249 E), hanno dichiarato l’incompatibilità della presunzione relativa in esame con le norme della direttiva n. 2006/112/CE, poiché essa eccede quanto necessario per prevenire i fenomeni di evasione o abuso, con conseguente illegittimità del diniego all’esercizio del diritto di detrazione IVA.

Infatti, detta presunzione si basa esclusivamente sulla valutazione del volume di ricavi che, di per sé, non può essere indicativo del carattere fraudolento delle operazioni effettuate o dell’esistenza di una costruzione artificiosa finalizzata all’esclusivo conseguimento di vantaggi fiscali.

Ulteriori considerazioni

La domanda di rinvio pregiudiziale della Cassazione è circoscritta alla compatibilità del divieto di riporto a nuovo in dichiarazione del credito IVA nell’ipotesi in cui l’ammontare delle operazioni attive soggette ad IVA effettuate sia sottosoglia per tre periodi d’imposta consecutivi (art. 30, comma 4).

Tuttavia, occorre considerare che le conclusioni raggiunte dai Giudici unionali nella sentenza, ossia l’impossibilità di negare il diritto alla detrazione dell’IVA in base a una presunzione fondata esclusivamente sull’ammontare dei ricavi percepiti, finiscono per minare anche la legittimità della prima parte del comma 4, che preclude il diritto al rimborso dell’IVA e alla compensazione orizzontale nel corso di ciascun anno nel quale viene raggiunta la soglia minima.

Infatti, come già retro evidenziato, il rimborso e la compensazione orizzontale (così come il riporto a nuovo) altro non sono che modalità alternative di esercizio del medesimo diritto: la detrazione dell’IVA.

Di guisa che l’eventuale preclusione all’utilizzo di tali strumenti, al fine di esercitare il diritto alla detrazione immediata e integrale dell’IVA assolta sugli acquisti, in presenza di tutte le condizioni sostanziali previste dalla normativa, si potrebbe giustificare solo ed esclusivamente in base alla dimostrata sussistenza di fattispecie di evasione o elusione, che, come visto, non può essere presunta solo sulla base dell’esistenza di ricavi considerati non congrui.

Tra l’altro, se ciò è vero, tale principio dovrebbe valere, a maggior ragione, per le imprese che, secondo il sistema delineato dal legislatore, sono considerate pienamente operative.

Tuttavia, non si può fare a meno di notare che le condizioni di accesso al rimborso dell’IVA delineate all’art. 30, D.P.R. n. 633/1972 non risultano perfettamente aderenti ai principi stabiliti dalla Corte di Giustizia nella sentenza C-341/22. Basti considerare che, al di fuori delle ipotesi di cui al comma 2, riguardanti i soggetti costituzionalmente a credito, i soggetti passivi per poter ottenere il rimborso integrale dell’IVA devono attende l’eventualità, a volte remota, che si verifichi un triennio consecutivo a credito (potendo richiedere comunque solo il minore dei tre importi) o, in ultima analisi, addirittura la cessazione della propria attività.

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