La norma del T.U. sull’oggetto del ricorso tributario nasce già “vecchia” e problematica

Nell’ambito dell’attività di riordino delle disposizioni che regolano il sistema tributario che sta conducendo il Governo a redigere i Testi Unici, suscita perplessità la riscrittura dell’attuale disposizione dedicata all’oggetto del ricorso e ai vizi sollevabili in giudizio. L’art. 65 del T.U. Giustizia Tributaria, approvato in via preliminare dal Consiglio dei Ministri, non tiene conto, infatti, della recente introduzione delle norme dello Statuto dei diritti del contribuente che, a fronte delle diverse ipotesi patologiche degli atti dell’Amministrazione finanziaria, abbinano (in modo innovativo) diversi regimi processuali di deducibilità dei relativi vizi. Il mancato coordinamento con le disposizioni novellate dallo stesso legislatore delegato rischia di rendere la redazione (tutt’altro che compilativa) dei Testi Unici un esercizio di semplificazione di mera facciata, che può essere fonte di ulteriore complessità per il delicato sistema processual-tributario?

Con riferimento a quest’ultimo, riguardante il nuovo ordinamento della giurisdizione tributaria e le disposizioni sul processo tributario applicabili a decorrere dal 1° gennaio 2026, nel comunicato stampa del Consiglio dei Ministri n. 89 del 22 luglio 2024 si rivela che “il testo ha carattere compilativo”.
Tuttavia, come già segnalato – cfr. l’Editoriale del 2 settembre 2023, Il diritto tributario avrà (finalmente) la forma di un vero Codice? – i principi e criteri direttivi fissati nella legge delega preludevano ad un’attività di consolidamento da parte del legislatore delegato che avrebbe richiesto ben più di una mera raccolta e trascrizione di disposizioni, prefigurando valutazioni delicate e l’effettuazione di decisive scelte di modifica, “aggiornamento” (art. 21, comma 1, lettera a, della legge n. 111/2023) e “coordinamento, sotto il profilo formale e sostanziale, delle norme vigenti”, al fine di garantirne e migliorarne “la coerenza giuridica, logica e sistematica” (art. 21, comma 1, lettera b, della legge n. 111/2023).
Tale obiettivo non sembra raggiunto, se si guarda a quella che dovrebbe essere la Grundnorm del rito tributario, ossia l’attuale art. 19 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, che nel T.U. Giustizia Tributaria viene numerato come art. 65.

L’art. 65 del T.U. riproduce lo stesso – “vecchio” – contenuto dell’art. 19 cit. In particolare, dopo aver predeterminato gli atti che danno accesso alla tutela davanti al giudice tributario (al comma 1), prescrive (al comma 2) che “[g]li atti espressi di cui al comma 1 devono contenere l’indicazione del termine entro il quale il ricorso deve essere proposto e della corte di giustizia tributaria di primo e secondo grado competente, nonché delle relative forme da osservare”.

Tuttavia, tale disposizione (che, riguardando il contenuto degli atti dell’Amministrazione finanziaria, dovrebbe trovare più pertinente collocazione nel Testo Unico Adempimenti e Accertamento) risulta priva di valenza precettiva, se si considera che l’attuale art. 7-quater del riformato Statuto dei diritti del contribuente (per opera dell’art. 1 del D.Lgs. 30 dicembre 2023, n. 219) esplicitamente derubrica a mera irregolarità – che non dà luogo ad annullabilità – la “mancata o erronea indicazione delle informazioni” relative alle modalità, al termine e all’organo giurisdizionale cui è possibile ricorrere in caso di atti impugnabili.
Inoltre, accogliendo l’indicazione contenuta nella nota n. 46/2023 del Vice Ministro dell’Economia e delle Finanze, che proponeva di inserire “in ottica compilativa” una disposizione che recepisse gli articoli 61, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 e 59, D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, l’art. 65 del T.U., dopo aver riproposto l’attuale disposizione sull’impugnabilità degli atti per “vizi propri” (i.e. il vigente comma 3 dell’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992), contempla un quarto comma dal seguente tenore: “[l]a nullità dell’avviso di accertamento e di rettifica ai sensi dell’articolo 42, comma 3, e dell’articolo 43, comma 3, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, nonché per l’omissione o l’insufficienza delle indicazioni prescritte negli articoli 56 e 57, comma 4, del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633 e, in genere per difetto di motivazione, deve essere eccepita a pena di decadenza in primo grado”.

L’inserimento di tale disposizione nell’ambito della norma dedicata agli atti impugnabili e all’oggetto del ricorso non solo non offre soluzione ad opzioni interpretative già segnalate in dottrina, ma non tiene neppure conto delle novità normative che lo stesso legislatore delegato ha da poco introdotto.

Innanzitutto, l’aver ribadito che le nullità testuali (quale quella prescritta in caso di motivazione inadeguata dell’avviso di accertamento) devono necessariamente essere dedotte a pena di decadenza in primo grado potrebbe – a contrario – avvalorare la tesi in passato autorevolmente sostenuta (per tutti, F. Tesauro, Le nullità dei provvedimenti tributari, in Innovazione e Diritto n. 5/2015, p. 30 ss.), secondo la quale, nei casi patologici più gravi non sussumibili nelle fattispecie delle nullità testuali (ad esempio, quando un atto difetta degli elementi essenziali), diviene annullabile anche l’atto consequenziale a quello viziato, in quanto carente di un presupposto indefettibile. L’atto nullo “in senso forte” genererebbe, cioè, un “vizio proprio” dell’atto successivo, accertabile in via incidentale nel giudizio relativo a quest’ultimo, senza preclusioni derivanti dall’omessa impugnazione dell’atto presupposto.

Se le nullità testuali devono necessariamente essere eccepite nel giudizio di primo grado sull’atto viziato (come ribadisce l’art. 65, comma 4, del T.U.), le altre ipotesi di inefficacia grave di un atto, non potendo consolidare effetti che l’atto viziato non è idoneo a produrre, potrebbero essere sollevate impugnando l’atto consequenziale?

Il legislatore delegato, nel riassettare le vigenti disposizioni processuali, lascia aperta quest’opzione interpretativa, che sarebbe stato più coerente scartare espressamente, considerato che l’art. 7-bis del novellato Statuto dei diritti del contribuente, nel qualificare come “annullabili” i provvedimenti dell’Amministrazione finanziaria che violano le norme “sulla validità degli atti”, onera il contribuente a dedurre “a pena di decadenza” i motivi di annullabilità “con il ricorso introduttivo del giudizio dinanzi alla Corte di giustizia tributaria di primo grado”.

Il comma 4 dell’art. 65, del T.U. risulta, inoltre, del tutto scoordinato rispetto a quanto prescrive l’art. 7-ter dello Statuto dei diritti del contribuente.

Secondo tale norma, i vizi di “nullità” “sono rilevabili d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio”. Ebbene, sono da qualificarsi come “nulli” – tra gli altri – gli atti dell’Amministrazione finanziaria “affetti da […] vizi di nullità qualificati espressamente come tali da disposizioni entrate in vigore successivamente al presente decreto” (sic!) (il riferimento della legge dello Statuto è evidentemente al D.Lgs. n. 219/2023 cit., in vigore dal 18 gennaio 2024, che ha introdotto l’art. 7-ter cit.).

Pertanto, il comma 4 dell’art. 65 T.U., quando entrerà in vigore, sarà fonte di ambiguità: il suo riferimento alle “nullità” contemplate dalle norme procedimentali a cui rinvia non dovrà essere inteso come una “qualificazione” rilevante ai fini dell’art. 7-ter dello Statuto (a fronte della quale è ammessa la rilevabilità d’ufficio del vizio), ma come un mero rinvio ad ipotesi patologiche che, essendo etichettate come “nullità” in testi normativi entrati in vigore prima della riforma dello Statuto, seguono il regime (generale) dei vizi di annullabilità.

Ma se questo è l’effetto, il comma 4 dell’art. 65 T.U. si rivela del tutto ultroneo: i vizi a cui rinvia ricadono già nell’ambito delle ipotesi di “annullabilità” degli atti dell’Amministrazione finanziaria, che, in base al citato art. 7-bis dello Statuto, devono essere sempre tempestivamente eccepite dal contribuente in primo grado “a pena di decadenza”.

L’“allungamento” del testo dell’attuale art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992 cit., attraverso il recepimento posticcio dell’art. 61, comma 2, del D.P.R. n. 600/1973 cit. e dell’art. 59, comma 2, del D.P.R. n. 633/1972 cit., appare, quindi, del tutto inutile e poco rispettoso della delega fiscale, che aveva richiesto che il legislatore delegato, nella redazione (tutt’altro che compilativa) dei Testi Unici sistematizzasse in modo organico le disposizioni che regolano il sistema tributario, “tenendo anche conto delle disposizioni recate dai decreti legislativi eventualmente adottati” (art. 21, comma 1, lettera b) della legge n. 111/2023).

Riunire testi “vecchi” attualmente sparsi in corpi normativi diversi rischia di risolversi in un esercizio di semplificazione di mera facciata, che può addirittura essere fonte di ulteriore complessità per il nostro delicato sistema processual-tributario.

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