L’investment management exemption rinforza l’attrattività del regime impatriati

Negli ultimi due anni post Covid, molte società hanno permesso ai proprio lavoratori di svolgere la propria attività in maniera agile/smart working anche dall’estero. Tuttavia, il legislatore, in ambito tributario, non ha predisposto ed emanato regole ad hoc sul reddito da lavoro dipendente e pertanto continuano ad applicarsi le regole generali previste dai Trattati contro le doppie Imposizioni (ex art. 15) e dal TUIR (ex art. 23): potestà impositiva nel Paese ove l’attività viene svolta.

Considerando la normativa di favore prevista nel nostro ordinamento tributario, di cui all’art 16, D.Lgs. n. 147/2015, molti lavoratori di società estere hanno deciso di trasferire la loro residenza in Italia, svolgere nel nostro territorio la loro attività lavorativa in maniera prevalente e godere del regime di favore. Tuttavia, in situazioni qui descritte, vi erano forti rischi, per la società estera, che l’attività svolta dal proprio dipendente sul territorio italiano creasse i presupposti per una taxable presence/stabile organizzazione in Italia.

Per questo motivo vi sono stati molti lavoratori che, a seguito del rifiuto del proprio datore estero di svolgere l’attività in Italia (causa rischi PE) hanno deciso di “cambiare società”. Situazione, molto frequente nel mondo dei fondi di private equity.

La novità della legge di Bilancio 2023

La novella normativa esclude infatti, al ricorrere di determinate condizioni indicate nella norma, che un veicolo d’investimento non residente possa integrare in Italia una stabile organizzazione come conseguenza del lavoro svolto nel nostro Paese da parte di investment and asset manager residenti o non residenti.

La legge di Bilancio, introducendo il comma 7-ter nell’art. 162, prevede che il soggetto residente o non residente in Italia si consideri indipendente dal veicolo di investimento non residente e che operi tramite una propria stabile organizzazione in Italia in nome o per conto del veicolo di investimento non residente o di sue controllate e che l’asset o investment manager abbia poteri discrezionali, nonchè abitualmente concluda contratti di acquisto, di vendita o di negoziazione, o comunque contribuisca tramite operazioni preliminari o sostanziali, all’acquisto, alla vendita o alla negoziazione di strumenti finanziari, anche derivati e comprese le partecipazioni al capitale o al patrimonio, e di crediti.

Le disposizioni del comma 7-ter si applicano qualora:

a) il veicolo di investimento sia considerato residente ovvero sia localizzato in uno Stato o territorio che garantisca un adeguato scambio d’informazioni con l’Italia ai sensi della normativa applicabile ai grandi emittenti;

b) Il veicolo di investimento non residente rispetti i requisiti di indipendenza stabiliti dal decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze. A tal fine sarebbe utile richiamare la normativa già prevista dall’HMRC inglese ai fini dell’independent capacity test (Part A, par. 35, Statement of Practice 1 (2001): treatment of Investment Managers and their overseas clients);

c) il soggetto residente o non residente non ricopra cariche negli organi di amministrazione e di controllo del veicolo di investimento e di sue controllate, e non detenga una partecipazione ai risultati economici del veicolo d’investimento non residente superiore al 25%;

d) il soggetto residente, o la stabile organizzazione nel territorio dello Stato del soggetto non residente, che presta servizi nell’ambito di accordi con entità appartenenti al medesimo gruppo riceva, per l’attività svolta nel territorio dello Stato, una remunerazione supportata dalla documentazione idonea ai fini del transfer pricing le cui linee guida saranno illustrate da un apposito provvedimento dell’Agenzia delle Entrate.

La nuova formulazione dell’art. 162 TUIR ha quindi costituito un safe harbour ai fini del rischio stabile organizzazione per i veicoli d’investimento esteri operanti in Italia tramite un investment o asset manager, pur mancando ancora dei chiarimenti che andranno ed essere prodotti nei decreti e provvedimenti in via di emanazione.
La norma è indubbiamente rivolta ad attrarre il mercato del private equity in Italia e va letta in un’ottica senz’altro positiva, per quanto permangono ancora delle forti disparità nel trattamento fiscale tra fondi UE ed extra UE. Tali disparità sono state da ultimo ravvisate nelle sentenze depositate il 6 luglio 2022 dalla Corte di Cassazione che ha ritenuto contrario al principio di libera circolazione dei capitali sancito dall’art. 63 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea il diverso trattamento fiscale riservato ai dividendi corrisposti ai fondi di investimento residenti o localizzati in Paesi extra UE rispetto a quelli residenti (Cass. n. 21454, n. 21475, n. 21479, n. 21480, n. 21481 e n. 21482), ponendosi in linea con quanto già affermato dalla Corte di Giustizia 17 marzo 2022 nella causa C-545/19.

Trova applicazione il regime impatriati?

Alla luce di tale novità legislativa, si ritiene che il regime di favore previsto per i lavoratori impatriati possa trovare ulteriore applicazione in quanto lavoratori non residenti che operano in fondi di private equity possono decidere di trasferire la loro residenza fiscale in Italia e usufruire, fermi restando tutti i requisiti della norma, dell’abbattimento del 70% o 90% di cui all’art. 16, D.Lgs. n. 147/2015 pur rimanendo dipendenti della società non residente senza esporre quest’ultima a rischi di una stabile organizzazione, ove ricorrano le condizioni della norma di cui comma 7-ter dell’art. 162 (“investment management exemption”).
Quest’ultimo punto è stato anche confermato dall’Agenzia delle Entrate nella circolare n. 33/E del 28 dicembre 2022 ove, al paragrafo 7.5 (“Datore di lavoro non residente”) ha esplicato che mentre la precedente normativa nella versione in vigore fino al 29 aprile 2019, richiedeva, tra le altre condizioni, che l’impatriato svolgesse l’attività lavorativa presso un’impresa residente nel territorio dello Stato in forza di un rapporto di lavoro instaurato con questa o con società che direttamente o indirettamente controllassero la medesima, ne fossero controllate o fossero controllate dalla stessa società che controllava l’impresa, tale requisito non è più richiesto ai fini dell’accesso al regime agevolativo.

Ne consegue che, in presenza di tutti i requisiti previsti dalla norma agevolativa in commento, possono accedere all’agevolazione i soggetti che vengono a svolgere in Italia attività di lavoro alle dipendenze di un datore di lavoro con sede all’estero.

È utile rammentare che, ove l’attività venga svolta sul territorio italiano in assenza di un certificato di copertura previdenziale, la società estera dovrà adempiere agli obblighi contributivi in Italia attraverso una rappresentanza previdenziale.

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