
In merito all’
art. 21-bis del
D.Lgs. n. 74/2000, la Cassazione ha ritenuto che la sentenza irrevocabile di assoluzione perché il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso, pronunciata in seguito a dibattimento nei confronti del medesimo soggetto e sugli stessi fatti materiali oggetto di valutazione nel processo tributario, avrebbe efficacia di giudicato rispetto al solo trattamento sanzionatorio, ma non dispenserebbe il giudice tributario dall’accertare la fondatezza della ripresa a tassazione. Si tratta di un’interpretazione autorizzata da un testo di legge finalizzato a razionalizzare il sistema sanzionatorio amministrativo e penale, attraverso una maggiore integrazione fra i diversi tipi di misure afflittive, che implica un triplice accertamento giudiziale e che irrazionalmente può condurre a ritenere legittimo il recupero del tributo evaso, ma non dovute le sanzioni collegate, a fronte di uno stesso fatto ritenuto (in sede penale) fenomenicamente inesistente o non commesso dal contribuente. Il prossimo capitolo della saga del ne bis in idem vedrà come protagonista le Sezioni Unite. To be continued…
Il testo è quello previsto dall’
art. 21-bis, comma 1, del
D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, introdotto dall’
art. 1 del
D.Lgs. 14 giugno 2024, n. 87, e recepito nell’art. 119 del Testo Unico della Giustizia Tributaria (T.U. 14 novembre 2024, n. 175): “[l]a
sentenza irrevocabile di
assoluzione perché il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso, pronunciata in seguito a dibattimento nei confronti del medesimo soggetto e sugli stessi fatti materiali oggetto di valutazione nel
processo tributario, ha, in questo,
efficacia di giudicato, in ogni stato e grado, quanto ai fatti medesimi”.
Secondo la Cassazione, questo testo, sulla scorta di un’interpretazione letterale, sistematica, costituzionalmente orientata e in conformità ai principi unionali, esprimerebbe la seguente norma: l’efficacia del giudicato penale attiene esclusivamente al trattamento sanzionatorio e non riguarda l’imposta, né la decisione del giudice tributario sulla pretesa impositiva; rispetto all’accertamento dell’obbligazione tributaria la sentenza penale assolutoria continua ad avere rilievo come mero elemento di prova, che deve essere oggetto di autonoma valutazione da parte del giudice tributario, unitamente agli altri elementi probatori introdotti nel relativo giudizio.
Quest’interpretazione ha stupito lo stesso legislatore, che – come emerge da pubbliche dichiarazioni del viceministro dell’Economia – attraverso l’art. 21-bis cit. aveva inteso estendere l’efficacia del giudicato penale anche all’accertamento del tributo.
C’è allora da chiedersi per quale motivo l’
esigenza di prevedere che “nei casi di sentenza irrevocabile di assoluzione perché il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso, i
fatti materiali accertati in sede dibattimentale
facciano stato nel
processo tributario quanto all’accertamento dei fatti medesimi” sia stata
confinata nella riforma dal legislatore delegante nell’ambito dei
principi e criteri direttivi “per la revisione del
sistema sanzionatorio tributario, amministrativo e penale” (
art. 20, comma 1, lettera a), n. 3) della
legge 9 agosto 2023, n. 111). Poiché il “completo adeguamento al
principio del
ne bis in idem” è
prefigurato esclusivamente all’interno di una
razionalizzazione del “
sistema sanzionatorio amministrativo e penale”, attraverso “una
maggiore integrazione tra i diversi tipi di sanzione” (
art. 20, comma 1, lettera a), n. 1) della
legge n. 111/2023 cit.), il
legislatore delegato ha (coerentemente) introdotto la disposizione sull’efficacia del giudicato penale nell’alveo della disciplina sanzionatoria e ha
omesso di
aggiungere che l’efficacia del giudicato penale “quanto ai fatti medesimi” oggetto di valutazione nel processo tributario
interessa anche la
pretesa tributaria.
Stante la riconosciuta necessità di “rivedere i rapporti tra il processo penale e il processo tributario” (
art. 20, comma 1, lettera a), n. 3) della
legge n. 111/2023 cit.), la riforma avrebbe, inoltre, potuto portare a una
revisione della
disciplina del doppio binario procedimentale e processuale, che continua invece a rendere
doverosa per l’Amministrazione finanziaria l’irrogazione della
sanzione, ancorché la medesima violazione sia, al contempo, oggetto di rilievo penale. Infatti, l’art. 4, par. 1, del prot. n. 7 della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo e l’
art. 50 della
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea prescrivono (in modo assoluto, senza possibilità di deroghe) che nessuno può essere “
perseguito o condannato” per un reato per il quale è già stato assolto o condannato in base a una sentenza definitiva: il
ricorso all’
endiadi (“condannato” – “perseguito”) dovrebbe
precludere allo Stato non solo la possibilità di punire due volte un soggetto per uno stesso fatto materiale, ma anche di sottoporlo a plurimi procedimenti sanzionatori.
Alcuni dei (numerosi) argomenti letterali e sistematici addotti dalla Cassazione appaiono, quindi, effettivamente persuasivi del fatto che la novella non esoneri affatto il giudice tributario a valutare autonomamente la fondatezza della pretesa tributaria, nonostante sia intervenuta sui medesimi fatti una sentenza irrevocabile di assoluzione.
Innanzitutto, se si accoglie la nozione ampia di “sanzione penale” proposta dalla giurisprudenza della Corte europea dei Diritti dell’Uomo (sent. 8 giugno 1976, Engel c. Olanda, n. 5100/71, 5101/71, 5102/71, 5354/72 e 5370/72), il giudice tributario dovrebbe stabilire se la pretesa tributaria abbia nel caso di specie una finalità punitiva, atteso che la Corte di Strasburgo ha configurato una violazione del divieto di bis in idem anche nel caso di congiunta applicazione di una sanzione penale e di una sovrattassa applicata per via della trasgressione fiscale (cfr. sentenza 20 maggio 2014, Nykänen c. Finlandia, n. 11828/11).
In secondo luogo, la pronuncia della Cassazione costringe a un triplice accertamento giudiziale rispetto a uno stesso fatto ascrivibile al contribuente:
a) da parte del giudice penale, ai fini della decisione sulla fondatezza dell’esercizio dell’azione penale;
b) da parte del giudice tributario, ai fini della decisione sulla fondatezza della ripresa a tassazione e
c) ancora da parte del giudice tributario, ai fini della decisione sull’applicabilità delle sanzioni collegate al tributo, che presuppone il riscontro dell’identità dei fatti materiali fra i due giudizi in relazione ai quali il contribuente invoca il valore extra-penale dell’accertamento compiuto in quella sede.
Se finora la decisione sulle sanzioni amministrative dipendeva (ed era di fatto assorbita) da quella sulla pretesa tributaria, l’interpretazione proposta dalla Cassazione legittima un terzo e autonomo accertamento da parte del giudice, che può condurre all’esito irrazionale di ritenere legittimo il recupero del tributo evaso, ma non dovute le relative sanzioni, a fronte di uno stesso fatto ritenuto (in sede penale) fenomenicamente inesistente o non commesso dal contribuente.
Un effetto davvero incongruo, che un testo normativo meno irresoluto avrebbe potuto prevenire.
To be continued…
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