Nuova web tax al via. Porterà ogni anno 108 milioni in più

Invariate le soglie di accesso
Restano invariate le soglie di accesso (750 milioni di euro di fatturato globale, 5,5 milioni di euro in servizi digitali erogati in Italia), si specifica che si tratta dei ricavi dell’anno precedente a quello di imposta per poi arrivare alla profilazione di chi non verrà toccato dalla Dst. A cominciare da chi fornisce «direttamente beni e servizi», per aggiungere i siti web del fornitore del bene o del servizio (cioè i classici siti web aziendali), tutti esclusi dalla web tax insieme ai fornitori di servizi bancari e finanziari (ma solo quelli?regolati dal Testo unico bancario e dal Testo unico finanziario). E ancora resteranno ai margini della digital tax italiana le piattaforme telematiche per lo scambio di energia elettrica, del gas, dei certificati ambientali e dei carburanti, così come le interfacce digitali che facilitano la vendita dei prodotti soggetti ad accise.

Il nodo della localizzazione delle transazioni imponibili
Una volta delimitato il campo dei giocatori della web tax – come è ormai chiaro sono le sole big-tech – resta il tema di fondo, delicatissimo, della localizzazione delle transazioni imponibili, visto che per il Fisco e per le soglie di cui sopra rileveranno solo gli “affari” conclusi in Italia. Come si fa a stabilire la “nazionalità” dei deal digitali? La legge di Bilancio riprende e affina le norme della Dst del 2019, stabilendo che il computer/cellulare/smartphone su cui si finalizza il servizio di intermediazione (di Google, di Facebook ecc) deve avere un Ip geolocalizzato in Italia o deve essere comunque localizzabile nella Penisola «nel rispetto delle regole» della privacy. Dopodiché segue una serie di regole di ardua interpretazione – ma soprattutto di non pronosticabile efficacia – sulla percentuale dei ricavi tassabili del soggetto passivo (ancora, Google, Facebook etc) rispetto ai servizi digitali che il dispositivo (cellulare, tablet, pc ecc.) ha ricevuto mentre era localizzato in Italia. Ancora più laborioso stabilire il “quantum” di imposta per i servizi di profilazione utente, per il quale si ricorre alla «proporzione degli utenti per i quali tutti o parte dei dati venduti sono stati generati o raccolti durante la consultazione, quando erano localizzati nel territorio dello Stato, di un’interfaccia digitale».

Più semplice la tempistica degli adempimenti fiscali
Stabilito così il perimetro di chi deve pagare e quanto deve pagare per la digital service tax – e sempre ammesso che la casistica non si attorcigli sulla norma prima ancora di iniziare – molto più semplice risulta al solito la tempistica degli adempimenti fiscali. L’imposta del 3% si applica sui «ricavi annuali» – e non più trimestrali come nelle versioni abortite -, deve essere versata il 16 febbraio successivo alla chiusura dell’anno solare e sulla base di una dichiarazione annuale sull’ammontare dei servizi tassabili forniti da presentare entro il 31 marzo dello stesso anno. Beninteso, i servizi tassabili dovranno avere in azienda una «apposita contabilità» separata, insieme agli elementi per calcolare le complicatissime proporzioni tassabili. Per i gruppi societari l’obbligo fiscale sarà assolto da una singola società «nominata», mentre per i soggetti non residenti (multinazionali) se sono stabiliti fuori dalla Ue – o dallo spazio economico europeo, See – e in Paesi con cui non c’è cooperazione amministrativa, dovrà essere nominato un rappresentante fiscale.

Queste regole, come del resto succede in Francia, sono comunque destinate a cedere il passo e le aliquote alla futura – e a questo punto auspicabilissima – digital tax globale a marchio Ocse.

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