Onere della prova nel processo tributario. Cosa ci dice la giurisprudenza

Mentre sul versante legislativo continua l’ambiziosa opera di riforma e riordino delle disposizioni del nostro sistema fiscale, non meno interessante si rivela – sul versante giudiziario – l’azione di interpretazione e attuazione delle disposizioni da poco entrate in vigore. In particolare, meritevole di attenzione è la posizione che si sta consolidando presso la giurisprudenza di legittimità e di merito circa l’applicazione della regola specifica sull’onere probatorio nel processo tributario (art. 7, comma 5-bis, del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, introdotto dall’art. 6 della legge 31 agosto 2022, n. 130), che risulta articolata nei seguenti tre corollari:

(i) “[l]’amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato”, mentre “[s]petta […] al contribuente fornire le ragioni della richiesta di rimborso, quando non sia conseguente al pagamento di somme oggetto di accertamenti impugnati”;

(ii) il giudice “fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio” e

(iii) “[i]l giudice […] annulla l’atto impositivo” nel caso in cui “la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni”.

Ad oltre un anno e mezzo dalla sua entrata in vigore, non tutte le ambiguità semantiche che il wording (davvero infelice) della disposizione autorizza sono state risolte e alcune soluzioni applicative prospettate dalla giurisprudenza non appaiono del tutto convincenti.

In particolare, non condivisibile si rivela la posizione espressa dalla Cassazione in alcune sue pronunce nelle quali si precisa (seppur in via incidentale) che l’introduzione della regola secondo cui “[l]’amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato” non comporterebbe un onere probatorio diverso o più gravoso per il Fisco rispetto ai principi previgenti in materia (Cass., ord. 8 gennaio 2024, n. 534; Cass., ord. 5 dicembre 2023, n. 34029; Cass., ord. 28 dicembre 2022, n. 37985; Cass., ord. 27 ottobre 2022, n. 31878). Il comma 5-bis dell’art. 7 cit. sarebbe, cioè, meramente riproduttivo in ambito tributario del canone generale secondo cui “[c]hi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento”, mentre chi “eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda” (art. 2697 c.c.).

Questo orientamento, già recepito in molti giudizi di merito (e.g., Corte giust. trib. II grado Abruzzo, sez. I, 9 febbraio 2024, n. 79; Corte giust. trib. II grado Lombardia, sez. VIII, 6 novembre 2023, n. 3263; Id., sez. V, 10 ottobre 2023, n. 3025), non valorizza, tuttavia, l’intenzione che ha guidato il legislatore quando ha introdotto la disposizione in discorso e non spiega affatto quale sarebbe il suo effetto pratico, se (di fatto) nulla è cambiato rispetto al passato.

Al fine di riconoscere una portata precettiva alla norma, alcune conseguenze innovative appaiono direttamente desumibili dal suo dettato.

Un primo effetto può essere apprezzato se si considera che la norma è applicabile non solo nelle cause relative agli accertamenti che rettificano in aumento la base imponibile attraverso la prospettazione (in positivo) di elementi reddituali non (sufficientemente) dichiarati dal soggetto passivo, ma anche in quelle relative alle contestazioni che (in negativo) disconoscono la spettanza, in tutto o in parte, di deduzioni, detrazioni, crediti d’imposta o altre posizioni soggettive vantate dal contribuente. Rispetto a quest’ultimo tipo di pretese, si è consolidato presso la Corte di cassazione un (criticabile) orientamento che, mutuando in ambito fiscale i principi probatori di matrice civilistica di “vicinanza della prova” e “disponibilità del mezzo di prova” (ex multis, Cass., SS.UU., 30 ottobre 2011, n. 13533), ha finito con il ribaltare l’onere della prova sul destinatario dell’avviso di accertamento (ossia sul soggetto che, secondo l’assioma della Cassazione, si troverebbe nelle condizioni migliori per assolverlo o che sarebbe più prossimo alla relativa fonte di prova), sgravando (di fatto) l’Amministrazione finanziaria dal compito di giustificare la sua contestazione, in violazione dell’art. 42 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, che espressamente richiede che l’avviso di accertamento risulti “motivato” anche in relazione al “mancato riconoscimento di deduzioni e detrazioni”.

La norma sull’onere della prova non autorizza più questo approccio, poiché per tutte le “violazioni contestate” prescrive (senza eccezioni) che gravi sull’Amministrazione finanziaria l’onere di spiegarne il fondamento, fissando una regola che, a ben vedere, non può essere derogata nemmeno nelle liti da rimborso: a seguito dell’impugnazione del rifiuto (espresso o tacito) opposto alla restituzione di tributi, sanzioni ed interessi o altri accessori non dovuti, l’Amministrazione finanziaria resta tenuta a giustificare il suo provvedimento (anche sotto forma di silenzio giuridicamente significativo) di reiezione. Il legislatore ha, infatti, adottato due espressioni distinte per descrivere l’onere della prova della parte privata e di quella pubblica: rispettivamente, al soggetto passivo spetta l’onere di “fornire le ragioni della richiesta di rimborso” (enfasi aggiunta), ossia di riversare nel processo le argomentazioni in fatto e in diritto circa la sussistenza del suo diritto di credito, già prospettate nell’istanza di rimborso non accolta; diversamente l’Amministrazione finanziaria “prova in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato” (enfasi aggiunta), ossia dimostra la legittimità e fondatezza del suo accertamento.

Un secondo effetto che può essere ascritto alla norma in discorso attiene all’esigenza che tale dimostrazione sia fornita dall’Amministrazione finanziaria “in giudizio”. Con riferimento al materiale probatorio a cui il giudice può attingere per formare il suo libero convincimento, chiara è, infatti, la scelta legislativa di circoscrivere il fondamento della decisione giudiziale agli “elementi di prova che emergono nel giudizio” (enfasi aggiunta).

La necessità che “emergano” nel corso del processo gli elementi che fondano la contestazione prospettata dall’Amministrazione finanziaria dovrebbe portare ad un “rinvigorimento” dell’istruzione probatoria che, nell’esperienza della prassi, è stata sinora sacrificata nel contesto di udienze di trattazione spicce e finalizzate esclusivamente a ribadire le principali ragioni di opposizione delle parti.

In particolare, all’udienza pubblica (ex art. 34 del D.Lgs. n. 546/1992), preliminarmente alla relazione sui “fatti e le questioni della controversia” e all’ammissione delle “parti presenti alla discussione”, dovrebbe realizzarsi una fase nell’ambito della quale il giudice relatore (nella veste di giudice istruttore) dia accesso alla prova nel processo, dopo averne valutato la rilevanza e la pertinenza; una volta ammessa la prova, essa dovrà essere assunta. Tale fase (propriamente ed effettivamente “istruttoria”) dovrebbe essere propedeutica alla trattazione della causa, in quanto mirata a raccogliere gli elementi necessari al fine di decidere sulle questioni individuate e discusse dalle parti in sede di udienza.

Infine, un terzo effetto può essere individuato nella parte della disposizione che prescrive che le “ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni” debbano risultare solidamente fondate sugli elementi eccepiti dall’Amministrazione finanziaria convenuta, dovendo altrimenti il giudice “annulla[re] l’atto impositivo”.

Sulla scorta di questo standard probatorio, devono ritenersi (ancora) legittimi gli accertamenti fondati esclusivamente su presunzioni? Secondo la giurisprudenza di legittimità e di merito, continua ad essere consentito il ricorso alle presunzioni legali: nelle fattispecie previste dal legislatore per supplire ai deficit informativi del Fisco e per agevolare l’esercizio effettivo delle attività di controllo, l’Amministrazione finanziaria può legittimamente accertare il fatto ignoto (e.g. l’esistenza e consistenza del reddito imponibile) limitandosi a contestare al contribuente la sussistenza della situazione di fatto nota (i.e. il presupposto alla base del meccanismo inferenziale). Infatti, il comma 5-bis dell’art. 7 cit., nell’esplicitare come il fondamento della pretesa fiscale debba essere provato “comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale”, “non si pone in contrasto con la persistente applicabilità delle presunzioni legali che, nella normativa tributaria sostanziale, impongano al contribuente l’onere della prova contraria” (Cass., ord. 30 gennaio 2024, n. 2746; cfr. anche Corte giust. trib. II grado Lazio, sez. VI, 12 febbraio 2024, n. 981; Corte giust. trib. II grado Lazio, sez. VIII, 11 gennaio 2024, n. 298).

La regola sull’onere della prova dovrebbe, invece, comportare un utilizzo più sorvegliato delle presunzioni semplici, ossia delle argomentazioni logiche mediante le quali si induce da un fatto già provato l’esistenza o il modo di essere di un fatto ignoto. Che tali strumenti di convincimento siano rimessi al prudente apprezzamento, caso per caso, del giudice non impone – ovviamente – di ritenere sussistenti i fatti presunti. Pertanto, qualora l’Amministrazione finanziaria ponga a fondamento della sua pretesa impositiva una prova presuntiva, sul contribuente non scatta alcun onere di prova contraria. La difesa del destinatario dell’atto impo-esattivo può, infatti, validamente appuntarsi sull’inattendibilità, illogicità o implausibilità del ragionamento inferenziale fatto proprio dall’Amministrazione finanziaria, senza la necessità di fornire prove contrarie. E se il ragionamento inferenziale non risulta applicato in modo adeguato “a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale” le ragioni della pretesa, il giudice dovrà ritenere la richiesta del Fisco sfornita di fondamento.

Ancor più significativo dovrebbe essere l’effetto della norma sull’onere della prova con riguardo alle presunzioni “giurisprudenziali”, ossia a quegli orientamenti attraverso i quali i giudici, al di fuori delle ipotesi espressamente previste dalla legge, si (auto)legittimano ad invertire la regola generale di distribuzione dell’onere della prova, traendo da una ricorrenza nella prassi (e.g. la distribuzione di utili occulti nelle società a ristretta base azionaria) una regola (e.g. un regime di trasparenza degli utili delle società di capitali, privo di fondamento normativo).

Stabilire che il giudice “annulla l’atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente” (enfasi aggiunta) postula l’esigenza che il giudice tributario effettui una valutazione sempre nuova e diversa, come ogni volta diverso è lo specifico atto autonomamente impugnabile sul quale il giudice è sollecitato dal ricorrente ad esprimersi.

Affinché le sentenze risultino meno aleatorie e – al contempo – maggiormente aderenti alle particolarità delle singole fattispecie concrete, ci si augura, quindi, che l’approccio delle Corti valorizzi appieno la portata innovativa della regola di riparto dell’onere probatorio.

Copyright © – Riproduzione riservata

Fonte