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Perché la tassazione degli extraprofitti delle banche non è scandalosa

Perché La Tassazione Degli Extraprofitti Delle Banche Non è Scandalosa

In determinati tornanti della storia si sono verificati, da un lato, eccezionali incrementi delle necessità di spesa da parte degli Stati e delle famiglie e, dall’altro, stupefacenti crescite dei rendimenti di singoli settori produttivi.

Al momento della Prima e della Seconda guerra mondiale si reagì in termini di finanza straordinaria applicando imposte speciali sui profitti derivanti dalla produzione di armi e altre forniture belliche. Negli ultimi anni, eventi quali il Covid, la guerra in Ucraina e l’inflazione si sono riflessi in un marcato squilibrio dei bilanci pubblici, in aspre difficoltà di molte famiglie e in inusitati rigonfiamenti di fatturato, profitti e valori patrimoniali di società farmaceutiche, energetiche e bancarie.

La progettata proposta italiana di tassazione degli extraprofitti delle banche, per quanto perfettibile, non può essere considerata una stravaganza. Si deve partire dalla considerazione che gli extraprofitti sono rendite, realizzate senza specifico merito imprenditoriale e che, soprattutto, esse non intaccano, se ridotte mediante tassazione, il normale rendimento dell’attività economica e il livello razionale degli investimenti.

La levata di scudi contro l’ipotesi di tassazione degli extraprofitti delle banche, probabilmente, ha fatto dimenticare che forme di prelievo più severo rispetto alla norma (aliquote progressive), a carico di imprese (con personalità giuridica), sono rintracciabili con una certa frequenza nei sistemi tributari non solo del ‘900, ma anche in quelli contemporanei. Soprattutto nella finanza straordinaria, ma anche nell’ordinaria.

A fronte di immani esigenze di spesa, come non attivare straordinari canali di entrata?

In presenza di eventi che determinano eccezionali aumenti dei profitti, come non rivolgersi a questi stessi profitti per sostenere i bilanci?

È il caso dell’imposizione sui profitti di guerra. Durante e subito dopo la Prima guerra mondiale 22 Paesi applicarono una tassa di quel tipo. Nei libri di storia ha lasciato traccia in particolare la “gulasch tax”, cioè il prelievo deciso dalla Danimarca sui produttori di carne fornitori dell’esercito tedesco. Stati Uniti, Gran Bretagna e diversi altri Paesi ripeterono l’esperienza anche in occasione del Secondo conflitto mondiale stabilendo anche aliquote molto elevate, con connessi forti gettiti. Negli Stati Uniti, nel periodo 1940-1943 le aliquote sui profitti di guerra andarono dal 30 al 95%.

Ai giorni nostri, la guerra in Ucraina, con connessi sconvolgimenti nell’approvvigionamento energetico, ha anch’essa determinato, da un lato, ponderosi fabbisogni di spesa (tra cui ristori per imprese energivore e famiglie non abbienti), dall’altro, inusuali e forti incrementi dei profitti di particolari settori produttivi. Non a caso, Gran Bretagna, Grecia, Ungheria e Romania hanno programmato tassazioni straordinarie, temporanee, della produzione di petrolio, gas e energia elettrica. Qualche tempo prima, la crisi sanitaria indotta dal Covid mise a dura prova i servizi sanitari e, contemporaneamente, portò alle stelle i valori delle grandi società farmaceutiche. Per esempio, Zoom, Moderna e Novavax quadruplicarono in pochi mesi il loro valore di Borsa. Non risulta però che in qualche Paese si stia procedendo a una tassazione straordinaria nello specifico settore dei farmaci.

Anche il settore delle banche europee, a seguito dei nuovi indirizzi rigoristi della BCE, ha sperimentato consistenti guadagni. È stato calcolato che, nel primo semestre 2023, le sei maggiori banche italiane hanno aumentato i profitti del 60% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Sull’esempio della Spagna, il Governo italiano ha reagito sul piano tributario, anche con l’intenzione di finanziare interventi di calmiere dei mutui indicizzati accesi dalle famiglie. Il progetto italiano è stato variamente criticato.

È stato detto che, in fondo, si tratterebbe di un’iniziativa poco qualificante e qualificata in quanto rivolta a rastrellare denaro dove denaro c’è e dove è più facile recuperarlo. Una sorta di tentazione cui si è ceduto.

Non è un’osservazione da premio Pulitzer per il giornalismo non solo perché non sono mai stati registrati casi di imposte in grado di produrre gettito in assenza di base imponibile, ma soprattutto perché il denaro in questione presenta la precipua caratteristica della rendita. La rendita è un imponibile specifico che varrebbe la pena di sottoporre a tassazione. Facendo leva sul concetto di rendita, inoltre, appare debole il dubbio di incostituzionalità in base all’art. 3 caposaldo dell’uguaglianza costituzionale: perché tassare solo il settore delle banche e non anche gli altri? La lamentela più ragionevole sarebbe: perché tassare soltanto le nostre rendite e non anche quelle degli altri settori?

La teoria economica assume che, in vista della massimizzazione dei profitti, la quantità di capitale si colloca dove, al margine, si uguagliano il prodotto e il costo del capitale. Quest’ultimo comprende la remunerazione ordinaria del capitale di rischio (azioni). Ne discende, formalmente, che un’imposta sulla rendita manda esente la remunerazione ordinaria del capitale e non intacca il livello normale degli investimenti.

Dove finisce il rendimento normale e dove incomincia la rendita?

Nel caso della tassazione dei profitti di guerra di solito si è fatto riferimento alla media dei tre anni precedenti. Altrimenti di dovrebbe fare riferimento a un determinato indice di rendimento prefissato, quale potrebbe essere il tasso offerto dai titoli del debito pubblico per definizione senza rischio. Evidentemente la seconda soluzione è la più adatta ad un’imposta sulla rendita permanente.

Per la verità, la tassazione all’italiana degli extraprofitti bancari una falla rispetto al criterio dell’uguaglianza la presenta, ma si tratta di una questione interna al settore. I profitti di una banca scaturiscono da due fonti, la differenza tra i tassi e i servizi. L’imposta sarebbe calcolata sul margine di interesse netto e non sugli utili netti. Avviene che la proporzione tra le due fonti di profitto sia diversa da banca a banca. Dalla tassa in discorso le banche maggiormente attente all’incasso delle commissioni sui servizi trarranno un vantaggio comparativo.

È stata anche ventilata l’ipotesi di contrasto con l’art. 47 che la Costituzione pone a tutela del risparmio “in tutte le sue forme”. Senza entrare in disquisizioni giuridiche, però, ci si chiede se tra tali forme non rientrino anche i depositi bancari che continuano ad essere remunerati allo 0% anche dopo 10 o 11 aumenti dei tassi decisi dalla BCE.

Un’imposta sugli extraprofitti, o rendite, permanente assumerebbe l’aspetto di un’IRES ad aliquote progressive. Se si guarda alla storia dei sistemi tributari non sarebbe un’eresia e, comunque, varrebbe la pena di rifletterci sopra anche perché a livello internazionale permane un certo dibattito in materia. Negli Stati Uniti, l’aliquota della Federal corporate income tax è unica (al 21%) soltanto dal 2018; precedentemente per decenni le aliquote furono progressive (per scaglioni). Tra il 1993 e il 2017 si partiva dal 15% (fino a 50.000 dollari) per poi crescere fino al 38% per lo scaglione tra 15 e 18 milioni di dollari (moderando al 35% dopo i 18 milioni).

L’imposta sul reddito delle persone giuridiche rileva sulla distribuzione dei redditi (e dei patrimoni) tra le persone fisiche (o le famiglie) in modi più o meno mediati. Essa incide il capitale, ma può essere anche traslata, almeno in parte, indietro sull’altro fattore produttivo, cioè il lavoro, o in avanti sui clienti a seconda di varie circostanze. Inoltre, un conto è il capitale di un piccolo azionista e un conto diverso è il capitale di un milionario titolare del pacchetto di controllo di una società. Nel contesto e nella tradizione americana la progressività della corporate tax non è precipuamente vista come strumento di equità del prelievo. L’argomento principale è invece il monopolio, ovvero si ritiene che esso vada limitato nei suoi poteri, i quali si alimentano di denaro. Maggiore concentrazione di denaro, più poteri di monopolio e, quindi, maggiore prelievo.

L’esperienza americana e le sue motivazioni risalenti a un tempo più o meno lontano probabilmente non rappresentano un modello facilmente replicabile, ma resta il fatto che la formazione di extraprofitti si accompagna al monopolio o a situazioni di mercato, oligopolistiche, nelle quali la concorrenza è assai limitata, o assente, come sembra essere il caso delle banche italiane.

In questo momento, inoltre, alcuni fattori spingono verso una riduzione dell’approccio concorrenziale dell’economia. Specificamente, in un mercato oligopolistico ci si fa concorrenza anche riducendo o moderando i prezzi del proprio prodotto o servizio nella speranza, quanto meno, di guadagnare quote di mercato. Ovvero si può programmare di rinunciare a una parte dei profitti nel breve in cambio di maggiori profitti futuri. Simile strategia aziendale diventa però meno attraente a misura che aumentano i tassi di interesse, come è avvenuto negli ultimi trimestri.

Una tassazione degli extraprofitti non cura né il monopolio, né l’oligopolio ma riduce a vantaggio della collettività i privilegi dell’uno e dell’altro.

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