Quando, nel 2004, si propose di assoggettare alle regole di identificazione – oggi adeguata verifica – e di segnalazione operazioni sospette gli avvocati, i commercialisti, i consulenti del lavoro e i notai sembrò un “abuso” del legislatore, dapprima comunitario in verità.
Una colossale discriminazione rispetto agli altri professionisti, ma, soprattutto, rispetto alle banche e a quegli intermediari che, per vocazione e struttura, ben potevano avere l’expertise necessaria per avvicinarsi, e continuare storicamente, all’applicazione delle regole di prevenzione del riciclaggio.
La prospettiva è errata per almeno due ordini di motivazioni:
– le norme a protezione della privacy e della riservatezza dei dati e delle SOS è di massimo tenore e consente una blindatura assoluta della relazione professionista-cliente;
– la logica che permea la normativa antiriciclaggio è quella della conoscenza del cliente per prevenire un rischio di riciclaggio per il singolo operatore e per il sistema, giammai l’adozione di comportamenti repressivi da parte di soggetti non legittimati.
Va spiegato al cliente che, in sostanza, egli autocertifica informazioni già note sulla sua attività, sullo scopo e natura del rapporto che va ad instaurare, sui titolari effettivi; in buona sostanza, sui contorni legali e registrati della sua mission statutaria; nulla di più. La differenza, come si è avuto modo di ripetere spesso, sta nel fatto che il cliente assevera ed autocertifica la bontà delle informazioni fornite, sgravando parzialmente il consulente dall’onere della prova in caso di ipotesi fraudolente.
Qui si fa avanti una prima criticità per il professionista, che sarà limitato – all’evidenza – sull’accesso a fonti informative che forniscano rassicurazioni sulle informazioni de quibus.
Non è opportunamente chiarito nelle norme e circolari di riferimento quali siano da ritenersi le fonti “di pubblico dominio” ovvero “indipendenti ed affidabili” cui rivolgersi per corroborare con dosi di veridicità i dati forniti dalla clientela. Posto che una “responsabilità omissiva” nel controllo, almeno ictu oculi, è prevista ed evidente dalla legge. Non potrebbe essere altrimenti, infatti, posto che il ripetuto scopo delle norme dell’antiriciclaggio è la know your customer, e se non si riesce a “conoscere il cliente”, come si fa ad avviare con lui una relazione d’affari?
Il problema delle banche dati è realtà, poiché la loro affidabilità – essendo non a controllo pubblico, ma cedute da società di software – non è stagna.
Inoltre, lo stesso non potrà dirsi per l’anagrafe dei titolari effettivi, che non certificherà – giova ricordarlo – l’esattezza del dato, in quanto potrebbe non risultare aggiornato, e perché la stessa norma di riferimento in tema di adeguata verifica non prevede la accettabilità di indicazione diversa da ciò che realmente è accertabile dal soggetto che usa la banca dati.
In una parola, la diligenza professionale è sempre in agguato, con il suo riflesso sulle valutazioni sanzionatorie per colpa.
Proseguendo con le criticità per i liberi professionisti, la conservazione dei dati è l’altro profilo contestato sovente dalle autorità ispettive. Da quando, nel 2019, è stato abolito il registro cartaceo, si è ingenerata nelle categorie l’idea che si fosse “abbassata la guardia” sulla conservazione delle informazioni. Va rammentato che i fascicoli della clientela devono contenere anche le adeguate verifiche e tutti i documenti che servono a corredo (atti, dichiarazioni varie, anche dei redditi, etc.), necessari alla profilatura di rischio. Prima si registravano anche nell’archivio cartaceo (qualcuno lo teneva in modalità informatica), ora non è più obbligatorio (anche se facoltativo, e se ne consiglia vivamente l’utilizzo). Meglio tenere per ogni cliente un elenco dei documenti archiviati, e periodicamente verificare cosa dovesse mancare.
Ultimo, ma non meno essenziale, l’argomento – spinoso – delle segnalazioni di operazioni sospette.
Senza esagerazioni, porsi nel proprio interesse; se mi si permette, quello eventualmente fraudolento del cliente passa in secondo piano, anzi non va nemmeno considerato. Ma siccome il sospetto di chi non è del mestiere potrebbe essere infondato, lasciamolo al vaglio dell’Authority. Nel frattempo, la prudenza nell’azione e nell’accordare fiducia totale al cliente non credo costituisca una violazione di quella fiduciarietà “reciproca” che deve caratterizzare l’essenza di tutti i rapporti umani, figuriamoci di quelli commerciali e professionali.
Da ultimo, a corredo, la riservatezza. È vero che è un diritto già salvaguardato dalla legge, in ogni sede, per il segnalante; ma è altrettanto vero che la prima tutela si appresta all’interno delle strutture segnalanti, ove la fuga di notizie, anche solo tradendo comportamenti di imbarazzo, non dovrebbe trovare posto.