
Nella delega al Governo per la riforma fiscale si era richiesto al legislatore delegato di “ridefinire l’assetto territoriale delle corti di giustizia tributaria” entro il 31 agosto 2025. A inizio febbraio, in vista dell’approssimarsi della scadenza, il Ministero dell’economia e delle finanze ha sottoposto al Consiglio di presidenza della Giustizia tributaria un primo progetto di riassetto che prevede, secondo le prime indiscrezioni, la soppressione di 64 Corti di giustizia tributaria di primo grado sulle 103 attualmente esistenti. Se si può convenire in astratto sull’opportunità di accorpare le Corti in modo da garantire un flusso di causa sufficiente per i nuovi giudici, non si può pensare che l’unico criterio da utilizzare per misurare il “carico di lavoro” associato a ciascuna sede sia il numero delle cause: le controversie, quanto a tempo richiesto al giudice per rendere una decisione corretta, non sono tutte uguali. Il progetto ministeriale non scongiura, quindi, il rischio di destinare molti dei nuovi selezionatissimi giudici al disbrigo di cause di ridottissimo valore e complessità, così sacrificandone la preziosa professionalità. Si è ancora in tempo, però, per cambiare rotta.
Il progetto di accorpamento delle Corti di giustizia tributaria inviato dal Ministero dell’economia e delle finanze al Consiglio di Presidenza della Giustizia tributaria, i cui contenuti sono stati anticipati dalla stampa specializzata, sta suscitando in questi giorni molte discussioni. Si tratta di intervento tutt’altro che timido: se si desse seguito a questa ipotesi di riorganizzazione verrebbero soppresse 64 Corti di giustizia tributaria di primo grado (su 103 totali) e tutte le sezioni staccate delle Corti di giustizia tributaria di secondo grado, con un risparmio complessivo di 700 milioni di euro in tre anni. L’idea di fondo è che ogni Corte dovrebbe poter contare su un flusso di quanto meno 1.000-1.500 cause l’anno, così da non dover ampliare la pianta organica dei nuovi magistrati tributari, previsti in 576 in tutto, di cui 448 destinati al primo grado: dando seguito al descritto riassetto, non sarebbe infatti necessario assegnare magistrati a sedi nelle quali non vi sarebbe un carico di lavoro in linea con il tempo (pieno) dedicato alla funzione. Il tutto, peraltro, in una situazione in cui il varo del processo tributario telematico e la possibilità dell’udienza a distanza, molto utilizzata dall’Agenzia delle Entrate e dai difensori, rende meno impellente la necessità di poter contare su un giudice per ogni provincia.
Malgrado ciò, il piano di riordino è stato da più parti criticato: l’assunto, a voler sintetizzare, è che l’organizzazione degli uffici giudiziari non dovrebbe essere ispirata esclusivamente a canoni di efficienza ed economicità perché “la prossimità della giustizia è un presupposto della sua stessa legittimazione democratica” (così, per tutti, F. Tundo, “Tagliare i tribunali allontana i cittadini dalla giustizia”, in Domani Quotidiano, 8 febbraio 2025).
Tesi questa che genera, se considerata nella sua assolutezza, più di una perplessità.
Non c’è proclama che tenga, infatti, a fronte di un dato di fatto che ben difficilmente può essere confutato: la valorizzazione dei nuovi giudici tributari sarebbe messa a serio rischio qualora si mantenesse inalterato l’attuale assetto di ripartizione delle controversie.
Sono i numeri a evidenziarlo.
Se si prende atto (fonte, MEF, Dipartimento della giustizia tributaria, “Relazione sul monitoraggio dello stato del contenzioso tributario e sull’attività delle Corti di giustizia tributaria”, anno 2023) che:
– 8 Corti (Roma, Napoli, Reggio Calabria, Cosenza, Palermo, Catania, Agrigento, Ragusa), fanno registrare 80.000 cause pendenti al 31 dicembre 2023 contro un totale nazionale di 158.000
– le cause sono concentrate (70%) in 39 Corti (su 103 complessive), le quali registrano un flusso in media di circa 3.000 cause l’anno, contro una media di circa 900 cause l’anno delle altre
– ci sono grandi sperequazioni tra una Corte e l’altra [per fare due esempi, le controversie acquisite nel 2023 da Verbania, Vercelli, Biella, Asti, Cuneo e Novara sono 1.616, meno di quelle di Torino (2.070), quelle instaurate innanzi ai giudici di Sondrio, Lodi, Lecco, Cremona, Mantova, Como, Pavia sono 2.200, poco più di un terzo di quelle di Milano (6.402)]
non potrà che emergere con chiarezza che il rischio che i magistrati di nuova nomina siano assegnati a sedi marginali, con conseguenze esiziali sulla loro crescita professionale, è tutt’altro che teorico.
Malgrado ciò, l’evidenziata opportunità dell’accorpamento non implica che il progetto ministeriale, per come descritto dai media, risulti immune da difetti, e ciò per le ragioni che si espongono di seguito.
La prima. Il piano non tiene in considerazione alcuna il valore delle controversie. Eppure, nella generalità dei casi, le liti di valore più elevato sono anche le più complesse, quelle che, quindi, richiedono maggiore ponderazione ai collegi (e, quindi, più tempo) per rendere una sentenza corretta. I dati del processo tributario, da questo punto di vista, sono impressionanti. Il 57,8% dei ricorsi nel 2023 ha per oggetto l’impugnazione di atti che recano pretese inferiori a 5.000 euro, mentre solo l’1,3% riguarda controversie di valore superiore a 1 milione di euro, che, tuttavia, rappresentano il 69,8% del valore complessivo del nuovo contenzioso. Sotto questo profilo si osserva peraltro anche una grande disomogeneità a livello nazionale, posto che il valore medio delle liti si attesta in Lombardia a 304.728 euro, in Lazio a 232.688 euro, in Piemonte a 189.083 euro, in Veneto a 186.532 euro, in Emilia-Romagna a 159.028 euro, in Campania a 75.225 euro, in Sicilia a 28.571 euro, in Calabria a 25.835 euro. La gran parte dei micro-giudizi è dunque concentrata nel Mezzogiorno e questo, come abbiamo visto, genera un pesante arretrato che si fatica a smaltire.
Avendo a mente esclusivamente il numero delle cause ai fini del ridisegno della geografia giudiziaria, si corre quindi il rischio, in violazione del criterio di delega che richiede di tener conto dei “carichi di lavoro”, di destinare molti dei nuovi selezionatissimi giudici, più di quelli che servono, al disbrigo di cause di ridottissimo valore e complessità in molti casi derivanti da impugnative strumentali, dilatorie e defatiganti.
La seconda. Nel calcolo dei carichi ipoteticamente assegnabili a ciascun nuovo giudice occorre tener conto non solo del numero e del valore delle liti, ma anche della tipologia delle controversie. Nel 2023 ad Agrigento sono stati presentati 724 ricorsi avverso atti emessi dagli enti territoriali, contro i 90 di Padova, e 2.443 impugnative di atti della riscossione, contro le 1.054 di Milano (questi ultimi, peraltro, costantemente impugnati soprattutto in alcune zone del Paese, aumentano, così falsando il significato dei dati, il valore medio delle controversie, che, malgrado ciò, come si è visto, resta in quelle aree molto ridotto). Risulta pertanto confermato che, se si utilizzasse esclusivamente il parametro del numero delle liti in sede di riprogettazione della giustizia di primo grado, si consegnerebbero i nuovi giudici a cause sui tributi locali o su atti della riscossione, frutto del tentativo di “prender tempo” in attesa del condono/rottamazione che, nelle aspettative non irrazionali degli operatori, prima o poi arriverà.
La terza. Dai dati ricordati emerge che è stato forse un errore non mantenere, a regime, negli organici degli uffici giudiziari i giudici onorari per le cause di valore ridotto (più della metà, lo abbiamo visto, della mole complessiva di ricorsi, se si considerano quelli attinenti ad atti di valore inferiore a 5.000 euro). Una tale scelta avrebbe di molto attenuato il pericolo di un cattivo uso dei nuovi magistrati, ai quali dovrebbero invece essere garantite analoghe possibilità di crescita professionale qualunque sia la sede alla quale vengono assegnati.
Di qui le conclusioni.
Se si è deciso di uscire dallo stato di sconfortante precarietà che necessariamente caratterizza una giustizia governata da chi non si occupa a tempo pieno di una materia tanto articolata e complessa, la prospettiva riformatrice dovrebbe essere quella della massima valorizzazione delle competenze di coloro che saranno chiamati a svolgere, a valle di un selettivo concorso e a tempo pieno, la funzione di giudice tributario. Questa, e non la ricerca della prossimità a tutti i costi, garantisce la consonanza della giurisdizione con i valori democratici: è la capacità dei giudicanti, conseguenza di una solida preparazione e di una vasta e variegata esperienza, ad attenuare gli eccessi del principio di maggioranza e i conseguenti rischi per la libertà e i diritti dei cittadini.
A tanto non si arriva preservando l’attuale condizione della ripartizione delle liti, ma nemmeno prescindendo dal valore e dalla tipologia delle controversie che le Corti di primo grado sono chiamate a decidere e non cercando, di conseguenza, di impedire che i giudici professionali siano destinati, quasi in esclusiva, a decidere liti bagatellari o cause frutto di dilatori ricorsi seriali o, ancora, non considerando che le liti del capoluogo regionale sono tante anche in ragione dell’attribuzione di quelle, non di rado molto importanti (anche per la crescita professionale di chi giudica), derivanti dalle verifiche nei confronti dei grandi contribuenti.
Una sola, quindi, dovrebbe essere, in un contesto tanto complesso, la prospettiva di ridisegno della geografia delle Corti di primo grado: si accorpino immediatamente le sedi che hanno un numero irrisorio di giudizi (per esempio, fino a 300 per anno), così creando le basi per una più ponderata valutazione dei criteri che consentano di “pesare” le cause e per assumere, in seguito, le conseguenti determinazioni. A ciò andrebbe aggiunta una seria valutazione di ulteriori interventi riformatori, quali il ripristino dei giudici onorari per le micro-cause, forse l’unico vero rimedio per attenuare gli effetti deflagranti della serialità sulla qualità della giurisdizione, e la modifica della regola della competenza per le controversie delle grandi società.
Non andrebbe esclusa, infine, una seria riflessione su un ulteriore accorgimento, quello di destinare i nuovi giudici a più di una tra le sedi rimaste dopo la soppressione delle più piccole (nulla lo vieta), così ottenendo gli auspicati risultati in termini di efficienza senza dover pagare il prezzo della soppressione delle sedi medie, quelle che gestiscono un numero non esiguo di cause dal valore tutt’altro che irrilevante.
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