I chiarimenti resi dalla Guardia di Finanza in risposta ad alcuni quesiti riguardano i reati tributari, la disciplina 231 e l’antiriciclaggio.
Reati tributari
In linea generale per i reati tributari il criterio seguito dal legislatore è quello di ascrivere le condotte delittuose secondo il principio costituzionale di personalità della responsabilità penale in capo a soggetti individuati sulla base delle funzioni svolte in aderenza al modello organizzativo adottato o dei poteri esercitati. Pertanto, nell’azione di contrasto all’evasione e alle frodi fiscali la Guardia di Finanza procede con un attento esame di tutti gli elementi acquisiti nel corso dell’attività investigativa al fine di individuare i responsabili degli illeciti la cui posizione viene segnalata all’autorità giudiziaria per le autonome valutazioni.
In tale contesto, per i delitti dichiarativi l’analisi non può prescindere dalla verifica della presenza in ambito societario di persone munite di poteri di rappresentanza in base agli statuti o alla legge tenuti a osservare gli adempimenti che costituiscono il presupposto delle condotte tipiche.
La Corte di Cassazione si è di recente pronunciata nell’ambito di una controversia per i reati tributari, rilevando che le responsabilità per gli illeciti deliberati o posti in essere da un consiglio di amministrazione privo di specifiche deleghe grava solidamente su tutti i suoi componenti, salvo il meccanismo di esonero contemplato dall’art. 2392, comma 3, c.c. che prevede l’esternazione e l’annotazione delle opinioni in contrasto da parte del consigliere dissenziente.
Diversamente, sempre secondo quanto sostenuto dai giudici di legittimità, laddove specifiche materie siano attribuite a uno o più amministratori, gli illeciti compiuti investono esclusivamente la responsabilità dei consiglieri delegati. Resta ferma in ogni caso, l’applicabilità dei principi generali in tema di concorso di persone nel reato.
Nel caso in cui dagli atti societari risulti che la sottoscrizione delle dichiarazioni sia stata delegata a un soggetto differente dal rappresentante legale della società in prima battuta e salvo coinvolgimenti attivi di terzi soggetti, l’eventuale reato tributario dichiarativo a chi viene ascritto: al rappresentante legale o al sottoscrittore della dichiarazione?
Secondo quanto chiarito dalla Guardia di Finanza, dall’analisi della struttura delle fattispecie di reato contemplate dal D.Lgs. n. 74/2000 si rileva che, per la quasi totalità dei casi, le ipotesi delittuose sono inquadrabili come reati propri.
È indubbio, infatti, che tali illeciti possano essere commessi solo da soggetti obbligati a determinati adempimenti di carattere fiscale, tra cui la presentazione della dichiarazione dei redditi, da intendersi anche quella che la persona fisica sottoscrive in virtù di particolari funzioni di amministrazione, liquidazione o rappresentanza ricoperta nell’ambito di società ovvero in qualità di sostituto d’imposta.
Secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale l’obbligo dichiarativo ha natura personale e come tale il relativo onere non è delegabile a terzi.
Pertanto, l’eventuale affidamento a un professionista dell’incarico di predisporre e presentare la dichiarazione annuale dei redditi non esonera il soggetto obbligato dalla responsabilità penale per i delitti dichiarativi. Tuttavia, è possibile – ad esempio nelle società che presentano un organo di gestione collegiale – che l’espletamento degli adempimenti tributari propri dell’impresa sia delegato a un soggetto diverso dal legale rappresentante. Ove ciò avvenga, in capo al delegato è ascrivibile l’eventuale reato dichiarativo, fermo restando che altri soggetti diversi dal materiale sottoscrittore della dichiarazione possano concorrere nel reato.
Infatti, laddove venga accertato che il delegato abbia tenuto la condotta penalmente rilevante perché istigato o rafforzato nelle sue intenzioni dal rappresentante legale ovvero in attuazione di un accordo con lo stesso, quest’ultimo risponderà del reato tributario a titolo di concorso.
Disciplina 231
Quali sono gli elementi tipici esaminati dalle unità operative del corpo della Guardia di Finanza per valutare se un modello organizzativo ex D.Lgs. n. 231/2001 sia idoneo e adeguatamente applicato nell’ambito aziendale?
La Guardia di Finanza ha innanzitutto premesso che i modelli organizzativi svolgono all’interno dell’ente il ruolo di veri e propri sensori di rischi di reato, assolvendo contemporaneamente ad un’attività di monitoraggio e prevenzione.
In tale ambito, il D.Lgs. n. 231/2001 – in chiave di protezione di eventuali responsabilità – prevede non solo che i modelli organizzativi siano adottati ma che siano idonei, ossia adeguati alla specifica struttura e alla concreta attività dell’ente nei rapporti interni/esterni ed efficacemente attuati.
Sul piano investigativo, l’attività delle unità operative della Guardia di Finanza è pertanto rivolta alla verifica che il modello organizzativo risponda all’esigenza di procedimentalizzare – previa mappatura delle aree di operatività esposte a rischio reato – la formazione del personale, l’attuazione delle decisioni degli apicali, la gestione delle risorse finanziarie, la costituzione effettiva di un organismo di vigilanza e un sistema di aggiornamento continuo del modello.
Funzionale a ciò è anche la predisposizione di un apparato sanzionatorio disciplinare interno e la creazione di un sistema di tutela da atti di ritorsione, discriminazione nei confronti dei whistleblower.
Infine, perché il modello possa dirsi efficacemente attuato in aderenza al principio di separazione delle funzioni, l’ente dovrà essere in grado di documentare ogni operazione, in modo da consentire la ricostruzione a posteriori e l’individuazione dei soggetti che hanno effettuato e autorizzato la transazione, nonché dotarsi di un codice etico che formalizzi per gli appartenenti all’ente i principi aziendali nel rispetto dei valori di legalità.
In definitiva, la ricorrenza di tali elementi rimessi al vaglio della magistratura sarà determinante per valutare l’operato dell’ente in termini di trasparenza, correttezza, lealtà dei rapporti con i propri portatori di interessi, tra cui amministratori e soci, ma anche con la PA e l‘intero sistema economico.
In presenza di un reato tributario fonte, ascrivibile a una società di capitali in cui il vertice aziendale management e proprietà coincidono, le unità operative del corpo della Guardia di Finanza, in assenza di un modello organizzativo e di altri presidi previsti dalla normativa, procederanno alle contestazioni della violazione del D.Lgs. n. 231/2001?
L’estensione alle fattispecie penal-tributarie delle responsabilità amministrative degli enti ai sensi del D.Lgs. n. 231/2001 impone alla polizia tributaria che sta indagando sul reato presupposto di rappresentare al pubblico ministero tutte le circostanze di fatto utili a verificare la consistenza dei presupposti da cui può scaturire l’eventuale responsabilità dell’ente.
Nello specifico, la polizia giudiziaria, nel rispetto delle direttive del PM, è chiamata a rilevare se il reato presupposto sia stato commesso nell’interesse o a vantaggio dell’ente da soggetti apicali o sottoposti, e questi abbiano agito nell’esclusivo interesse proprio o di terzi (circostanza che escluderebbe la responsabilità della persona giuridica), nonché a verificare l’idoneità del modello organizzativo eventualmente adottato a prevenire la commissione di reati della specie di quello presupposto.
Eventuale coincidenza tra il management e la compagine sociale costituisce elemento da tenere in considerazione, con particolare riferimento alle S.r.l. unipersonali, alla luce dei principi esposti dalla Corte di Cassazione, secondo cui occorre valutare nel concreto, caso per caso, se la contestuale punibilità dell’ente e del suo rappresentante legale, per il medesimo fatto, costituisca una violazione del principio del ne bis in idem sostanziale.
Tale accertamento, secondo la Corte, deve essere effettuato sia sulla base di criteri quantitativi che in termini di dimensione dell’impresa e struttura organizzativa della società, sia funzionale, fondata sull’impossibilità di distinguere un interesse dell’ente da quello della persona fisica che lo governa e, dunque di configurare una colpevolezza dell’ente disgiunta da quello dell’unico socio.
Antiriciclaggio
Spesso nei procedimenti penali per reati economici e di riciclaggio viene nominato dalla difesa un consulente tecnico. Si ritiene che oltre alla conservazione dell’incarico ricevuto e all’identificazione del cliente nei cui confronti si svolge l’incarico , il consulente tecnico, ai fini dell’antiriciclaggio, non debba svolgere altri adempimenti (ad esempio, valutazione del rischio) essendo evidente che, a prescindere dal livello di rischio eventualmente attribuito al cliente, non potrà mai effettuare la segnalazione di operazione sospetta, pena la compromissione del diritto di difesa nel procedimento penale nei confronti dell’indagato imputato.
Secondo il parere reso nel mese di giugno 2006 dall’allora Ufficio italiano cambi, l’attività svolta dal consulente tecnico, a seguito di un incarico dell’autorità giudiziaria, era esclusa dall’applicazione delle disposizioni antiriciclaggio. Successivamente le regole tecniche del CNDCEC del gennaio 2019 hanno previsto quale regola di condotta ai fini dell’adempimento degli obblighi di adeguata verifica, l’acquisizione e la conservazione di copia della nomina da parte dell’autorità giudiziaria.
Analogamente, il consulente tecnico nominato dalla difesa non è esonerato dagli obblighi antiriciclaggio nell’attività professionale svolta nell’ambito di un procedimento penale per reati economici di riciclaggio. Infatti, come evidenziato dal Comitato di sicurezza finanziaria (parere 6 dicembre 2018) deve escludersi la possibilità di individuare in via automatica e preventiva fattispecie in cui operano sostanziali presunzioni di assenza di rischio di riciclaggio. Restano ferme le garanzie derivanti da diritto ad un giusto processo.