Revisione dell’IRPEF. Da dove incominciare?

Il disegno di legge delega fiscale del Governo Meloni installa tra i suoi “principi e criteri direttivi” la riduzione del carico fiscale complessivo (art. 2). Sembra una clausola di stile inutile e irrealistica. Per ridurre la pressione fiscale non ci sarebbe bisogno di una “riforma”; potrebbe essere sufficiente ridurre le aliquote vigenti. D’altra parte, banalmente, si dovranno fare i conti con i fabbisogni di spesa pubblica. In particolare, non saranno sostenibili livelli di spesa sanitaria pubblica poco sopra il 6% del PIL come previsto per i prossimi anni dalla programmazione di bilancio ufficiale. Il servizio sanitario nazionale, che dovrebbe essere universale, avrà bisogno di più ampi finanziamenti, anche per la normale gestione degli investimenti, in via di realizzazione, connessi con il PNRR. Ci sono anche i capitoli della scuola, dell’Università e della formazione che richiedono grande impegno, anche sotto il profilo dell’integrazione degli immigrati. Non si può, inoltre, dimenticare che ampi settori della Pubblica amministrazione sono sottodotati di personale, soprattutto qualificato, come emerge dalle difficoltà di attuazione delle opere pubbliche locali alimentate dal PNRR.

Più interessante la graduale riduzione IRPEF (art. 5) promessa nel “rispetto del principio di progressività” e nella “prospettiva della transizione del sistema verso l’aliquota unica”. Trascurando l’aspetto messianico della flat tax generalizzata (che comporterebbe un calo di gettito di decine di miliardi), ci si può pacatamente interrogare su quale debba essere il peso del prelievo sulle persone fisiche all’interno di un sistema tributario coerente. Ovvero, in Italia si paga troppa IRPEF?

Nei primi anni ’70 del secolo scorso, quando fu introdotta l’IRPEF, all’interno del prodotto interno lordo la componente costituita dai redditi da lavoro dipendente era maggioritaria. Ora (2022) la percentuale è poco sopra il 40%, un dato non molto diverso da vent’anni fa (37-38% nel periodo 2003-2006). La riduzione del lavoro dipendente nel PIL è fenomeno esteso a gran parte dei Paesi sviluppati, compresi Francia e Germania, dove peraltro tale quota è superiore a quella italiana (5-7 punti di PIL). Secondo i dati rintracciabili in “Revenue Statistics dell’Oecd”, nel 2021, in Italia l’imposta ivi definita come “imposta sui redditi, i profitti e i capital gains” degli individui (essenzialmente l’IRPEF) forniva il 25,9% del gettito tributario. In Francia il medesimo tipo di prelievo contribuiva per il 21%, mentre in Germania si arrivava al 26,6%. Non vanno però trascurate le differenze sul carico fiscale complessivo; in Italia il 43,3%, in Francia il 45,1% e in Germania il 39,5%. Con ampio beneficio d’inventario, notando di sfuggita che un punto di PIL in questi Paesi corrisponde a decine di miliardi di euro, si può trarre la considerazione che, all’aumento della pressione fiscale complessiva, quella che nel gergo internazionale viene definita “personal income tax” (o pit) non può essere sovraccaricata di compiti di gettito. Servono altre fonti di entrata.

Da qualche anno, gli esperti di macroeconomia e di contabilità nazionale notano nella composizione del PIL non solo, come rilevato, la riduzione del lavoro dipendente, ma anche l’impatto della crescita dei fitti immobiliari effettivi e imputati. E’ una dinamica delle rendite nella quale il fattore lavoro è totalmente assente (non contribuisce e non beneficia). Si calcola che lo spazio delle rendite immobiliari, comprensive di affitti imputati ed effettivi, sia attualmente attorno al 12-13% (Bordignon M, F. Neri e C. Orlando, “Da dove arrivano i redditi degli italiani?”, Ocp, febbraio 2023).

È chiaro che lo spazio che l’IRPEF deve avere all’interno del sistema tributario dipende anche dalla definizione della base imponibile. Quella dell’italiana IRPEF è tale per cui la stragrande maggioranza del gettito è derivato dal reddito del lavoro dipendente (54,05%, nell’anno d’imposta 2020, come da Mef, “Analisi dati IRPEF) e dalle pensioni (30,94%). La componente dei redditi immobiliari è limitata (1,91%), essendo in vigore una cedolare sui fitti effettivi e valendo la deduzione (pari nel complesso a 9 miliardi) dei fitti imputati. La delega fiscale interviene aggravando questa situazione prospettando “per i redditi dei fabbricati, la possibilità di estendere il regime della cedolare secca agli immobili adibiti ad uso diverso da quello abitativo” (art. 5, lettera c).

Secondo l’art. 5 della delega, la revisione dell’IRPEF rispetterà il principio di progressività e avverrà attraverso non solo la ridefinizione di scaglioni e aliquote, ma anche il riordino, tra l’altro, delle deduzioni “tenendo conto delle loro finalità, con particolare riguardo … alla tutela del bene casa”, nonché alle facilitazioni che si applicano per i carichi familiari, la salute, l’istruzione, la previdenza complementare, gli “obiettivi di miglioramento dell’efficienza energetica e della riduzione del rischio sismico del patrimonio edilizio esistente”. Attualmente la tutela delle prime case è affidata all’esenzione IMU, alle detrazioni degli interessi sui mutui, alle ridotte aliquote IVA e delle imposte di registro, catastale e ipotecaria, alla sostanziale inesistenza dell’imposta di successione. La deduzione dall’IRPEF dei valori catastali è tanto importante? La loro reintroduzione nell’imponibile dell’imposta personale, che dai 50.000 euro è piatta, varrebbe a migliorare la progressività.

La situazione dei redditi da lavoro dipendente è stagnante da decenni. Per i tempi più recenti, dall’ISTAT apprendiamo che, posto a 100 l’indice dei prezzi al consumo per l’intera collettività nel 2015, nel 2021 si saliva a 104,7. In pari tempo, le retribuzioni contrattuali per dipendente a tempo pieno passavano da 100 a 104,3. Nel 2022 i redditi di lavoro dipendente hanno beneficiato di un incremento medio del 7%, con differenze consistenti tra settori (nell’industria 6%). L’inflazione si è collocata all’8,1%. Cause e conseguenze di un simile contesto sono molteplici. Difficile, però, pensare che tempi e modalità di attuazione della delega fiscale non debbano tenerne conto. Le lente dinamiche salariali e stipendiali si agganciano alle perduranti difficoltà dell’economia italiana a crescere in modo impetuoso e a recuperare buoni livelli di produttività. Ci sono però segnali che vanno al di là dei rimbalzi post Covid del PIL 2021 e 2022. In particolare, l’anno scorso la nostra economia ha totalizzato più di 700 miliardi di esportazioni, con una crescita (a prezzi correnti) del 25% rispetto al 2019. Quest’anno il turismo si annuncia in pieno boom. Se, da un lato, tali successi non derivano dalla sola modestia delle retribuzioni, d’altro lato, non può essere negata sine die una ricompensa anche al fattore lavoro. La materia riguarda la contrattazione tra le parti sociali che, perché non sottolinearlo, potrà essere in qualche misura facilitata da novità nel prelievo elaborate in base alla considerazione che non tutti i contribuenti e non tutte le fonti del gettito sono ugualmente importanti ai fini dell’incremento del benessere generale.

Quasi contestualmente alla delega fiscale ambienti del Governo hanno lanciato l’ipotesi di riduzione delle aliquote IRPEF da 4 a 3. Rimarrebbe invariata al 43% l’aliquota per i redditi sopra i 50.000 euro. Per le cifre entro questo limite, si tratterebbe: a) di estendere l’aliquota del 23% dall’attuale scaglione dei 15.000 euro fino a 28.000 euro per poi applicare il 33% fino ai 50.000; b) mantenere il 23% fino al vigente 15.000 e gravare in misura del 28% tutto quel che resta fino a 50.000. Le due soluzioni a 50.000 non si discostano di molto, ma la grande maggioranza degli operai e degli impiegati (e dei pensionati) è lontana dal godere di quella cifra. Per questi soggetti sarebbe preferibile la prima combinazione di aliquote e scaglioni, ma molto dipende da come verranno definite le detrazioni.

Nella delega, però, riguardo al lavoro dipendente compare quel che potrebbe costituire una novità di un certo peso. All’art. 5, si prospetta “la possibilità di consentire la deduzione dal reddito di lavoro dipendente, anche in misura forfettizzata, delle spese sostenute per la produzione dello stesso”. Il primo esempio che viene alla mente riguarda le spese di trasporto sostenute dai pendolari. La facilitazione si aggiungerebbe alla no tax area e ad altre detrazioni. Sembra un’idea da approfondire e sostenere.

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