Riforma del contenzioso fiscale: troppe irricevibili “escrescenze” nel decreto attuativo

È stata messa in circolo la bozza di decreto, nella quale, in attuazione dell’art. 4, comma 1, lettera h), e dell’art. 19, comma 1, lettere da a) ad h), recanti criteri direttivi, rispettivamente, in materia di autotutela e di revisione della disciplina del “contenzioso” tributario, si prefigurano modifiche al D.Lgs. n. 546/1992, contenenti nuove disposizioni sul “processo” tributario, ivi regolato.
Dall’esame dell’elaborato, accanto a plurime disposizioni, per così dire necessitate per l’ormai esteso iter telematico, emergono altre che, lungi dal migliorare, deturpano sensibilmente l’assetto normativo del D.Lgs. n. 546/1992 senz’alcuna plausibile ragione giustificativa.
Seguendo l’ordine numerico, si annota subito la deplorevole aggiunzione all’art. 14 di un ventilato comma 6-bis, con il quale si dice che, “in caso di vizi della notificazione eccepiti nei riguardi di un atto presupposto emesso da un soggetto diverso da quello che ha emesso l’atto impugnato, il ricorso è sempre proposto nei confronti di entrambi i soggetti”. L’ignoto autore di siffatto rigurgito nomopoietico non pare abbia cognizione del processo tributario e civile (che, com’è noto, integra nei limiti dell’art. 1, comma 2, D.Lgs. n. 546/1992, quello tributario), posto che sia nell’uno che nell’altro, il litisconsorzio necessario è istituto eccezionalmente previsto (dagli art. 102 c.p.c. e 14, D.Lgs. n. 546/1992) solo per i casi in cui l’oggetto dei relativi processi sia costituito da una situazione unitariamente intersoggettiva tale che nessun processo può avere luogo se non con la partecipazione di tutti i soggetti che inscindibilmente connotano la situazione che forma oggetto del processo stesso, con la rigorosissima conseguenza che, in difetto, la sentenza diversamente pronunciata è inutiliter data.

Come si può infilare in tale istituto e in tale disciplina il caso di vizi della notificazione eccepiti nei riguardi di un atto emesso da un soggetto diverso da quello che ha emesso l’atto impugnato imponendo che in tal caso il ricorso sia sempre proposto nei confronti di entrambi i soggetti?!

Nell’art. 15, ai commi 1 e 2, si vorrebbero apportare aggiunzioni e sostituzioni per sancire che, nel giudizio nel quale la decisione si basa in tutto o in parte su elementi forniti per la prima volta dal contribuente solo nel corso del giudizio stesso non vale il principio della soccombenza, e le spese debbono essere compensate, pur se il contribuente sia risultato vittorioso. Com’è già stato egregiamente rimarcato (da Andrea Giovanardi, nell’editoriale di IPSOA Quotidiano del 9 dicembre), si distorcono in tal modo le regole paritarie dell’istruttoria del processo indebitamente a vantaggio dell’istruttoria amministrativa della parte pubblica, ledendo l’autonomia decisoria del giudice tributario, e i principi costituzionali del victus victori e della parità delle armi all’interno del processo, in totale dispregio degli articoli 3 e 24 Cost.

Negli articoli 19 e 21, perpetuando la già, da più parti, deplorata introduzione di una “pasticciata“ disciplina del delicatissimo istituto dell’autotutela (obbligatoria o discrezionale), si vorrebbero inquinare gli altrettanto delicatissimi, equilibri di questi articoli, equiparando, abnormemente l’autotutela a restituzioni o a rimborsi, senza considerare che il giudice tributario, sulla base dei poteri ad esso assegnati dalla Costituzione, nel giudicare sull’istanza di autotutela, può solo disporre o non disporre il ripristino dell’obbligo dell’ente impositore di ripronunciarsi sull’istanza di autotutela, a fronte del rifiuto espresso o tacito dell’istanza stessa, se ritenuto illegittimo, ma non può ripronunciarsi sugli atti impositivi pregressi né, tantomeno, disporre restituzioni o rimborsi di sorta, oltre i limiti che ne connotano la funzione.

Con l’aggiunzione all’art. 34-bis si vorrebbe legittimare per il processo tributario una forma di sentenza tanto semplificata da risultare sostanzialmente inesistente siccome ridotta ad “un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo ovvero, se del caso, a un precedente conforme”, in violazione del minimo guarentigiato dall’art. 111 Cost., che, comporterebbe, oltretutto, la non sindacabilità del vizio di motivazione apparente anche in sede di legittimità (art. 360, 1° comma, n. 4 c.p.c. richiamato dall’art. 62, 1° comma, D.Lgs. n. 546/1992).

L’aggiunta nell’art. 35, comma 1, di parole con le quali si vorrebbe costringere il giudice tributario, “al termine” che delibera in camera di consiglio a dare “lettura immediata del dispositivo, salva la facoltà di riservarne il deposito in segreteria e la sua contestuale comunicazione ai difensori delle parti costituite entro il termine perentorio dei successivi sette giorni”, il che è, a dir poco, bizzarro, oltre che velleitario e realisticamente “canzonatorio” essendo eludibile de plano con il semplice generalizzato impiego della riserva e per la mancata previsione di una qualsivoglia sanzione in caso di inosservanza del termine “perentorio” dei sette giorni dalla “contestuale” (sic!) comunicazione ai difensori delle parti costituite, di non si sa bene che cosa, se del dispositivo di riserva o della pronuncia.

In tema di tutela cautelare vengono introdotte modifiche assai discutibili.

Con l’inserimento all’art. 47-ter è attribuita al giudice del merito la facoltà, sia pure a determinate condizioni, della definizione del giudizio in esito alla domanda di sospensione mediante sentenza in forma semplificata limitando il normale svolgimento del contraddittorio e prevedendo la possibilità di proporre motivi aggiunti per ognuna delle parti, benché in realtà la proposizione di motivi aggiunti è normativamente circoscritta ex art. 24 D.Lgs. n. 546/1992 alle sole parti contribuenti.

E nell’art. 62bis con la soppressione del 2° periodo del 1° comma si esclude la possibilità per il contribuente di chiedere la sospensione dell’esecuzione dell’atto se da quello può derivargli un danno grave e irreparabile. Dimenticando, a quanto pare, che in materia tributaria, i titoli esecutivi che legittimano l’esecuzione forzata sono soltanto gli atti impoesattivi, il ruolo e l’ingiunzione fiscale, mentre la sentenza di rigetto o di annullamento non costituiscono titoli esecutivi e solo le sentenze di condanna al rimborso pronunciate contro l’ente impositore è in realtà suscettibile di giudizio d’ottemperanza e di tutela cautelare prodromica.

La nuova disciplina dell’istruttoria in appello, di cui, tra l’altro, è previsto (ex art. 3, comma 2, della bozza di decreto) l’applicabilità ai giudizi instaurati, in primo e in secondo grado (sic!), “a decorrere dal giorno successivo all’entrata in vigore del presente decreto”, cambia radicalmente la portata dell’attuale art. 58, e si discosta in parte anche dal vigente art. 345 c.p.c., vietando l’ammissione di nuovi mezzi di prova e di produzione di nuovi documenti, consentendola alle parti solo per il caso che dimostrino l’impossibilità di proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad esse non imputabile, mentre si attribuisce “al collegio” l’incondizionato potere di ammetterli ex officio, ove solo “li ritenga indispensabili ai fini della decisone della causa”. Alterando così il delicato equilibrio tra poteri del giudice e poteri delle parti nella gestione dell’attività istruttoria, giusta quanto disposto per il processo tributario e per quello civile nel rigoroso rispetto della sostanziale parità di poteri costituzionalmente guarentigiata.

Quanto appena rilevato in nuce sembra davvero più che sufficiente per giustificare il riferimento fatto nel titolo a irricevibili “escrescenze” che richiamano alla mente “rigurgiti” normativi che non sembrano degni della nostra cultura processualistica.

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