Le principali
criticità dello schema di decreto legislativo sul
processo tributario non sono venute meno nel testo definitivo approvato il 28 dicembre dal Consiglio dei Ministri a seguito del parere reso dalle Commissioni riunite II e VI di Camera e Senato del 21 dicembre: la previsione concernente la sentenza in forma semplificata (nuovo art. 47-
ter del
D.Lgs. n. 546/1992), in un contesto in cui già si assiste in non rari casi a provvedimenti lapidari e tutt’altro che articolati; la possibilità del giudice di passare alla decisione, sempre in forma semplificata, già nella fase cautelare (nuovo art. 47-
ter); il divieto, risultante dal nuovo
art. 58 del
D.Lgs. n. 546 del 1992, di produrre nuovi documenti in appello e la conferma, palesemente confliggente con il diritto di difesa, che esso trova applicazione anche agli appelli proposti successivamente alla data di entrata in vigore del decreto (da chi, quindi, legittimamente ha ritenuto, nel primo grado di giudizio, di poter contare sulla possibilità, ammessa dalla norma allora vigente, del deposito in secondo grado); il circolo vizioso che viene a crearsi in tutti i casi in cui, addivenendosi alla sentenza in forma semplificata in fase cautelare, non si sia ancora data compiuta attuazione all’azione difensiva con il deposito di tutti i documenti necessari alla difesa; i dubbi di costituzionalità, fatti propri anche da
Cesare Glendi nell’
editoriale del 23 dicembre, in merito alla disciplina delle spese di lite di cui al nuovo art. 15, comma 2, il quale, prevedendo la compensazione delle spese, punisce il contribuente che vinca la causa grazie a documenti prodotti per la prima volta nel corso del giudizio.
Se volessimo individuare una sorta di fil rouge che collega le ricordate scelte potremmo forse ravvisarlo nel sempre più evidente favor nei confronti degli istituti deflativi delle liti e, quindi, nel contemporaneo disfavore verso chi, malgrado le varie opzioni exit che l’ordinamento mette a disposizione, si ostini a fare ricorso alla giustizia tributaria, così impegnando gli uffici finanziari in defatiganti controversie. Il processo tributario come extrema ratio, visto come un male da evitare, di tanto che, ma questo è un altro discorso, risulta vieppiù sorprendente che si sia giunti, poco più di un anno fa, a quella riforma ordinamentale che sembrava preludere a ben altri sviluppi.
Una sola nota positiva, quindi, emerge dal testo definitivo, risultando espunta da esso altra rilevante criticità dello schema di decreto approvato dal Consiglio dei Ministri nel novembre scorso: intendo riferirmi alla nuova disciplina dell’udienza di discussione.
Per rendersene conto occorre
fare un passo indietro e soffermarsi sull’
attuale regolamentazione come emerge dal combinato disposto degli
articoli 33,
34 del
D.Lgs. n. 546 del 1992 e 16, comma 4, del
D.L. n. 119 del 2018: l’
udienza si tiene
in camera di consiglio, fatto salvo il diritto di ottenere, previa specifica richiesta, che si tenga in forma di udienza pubblica, da celebrarsi anche a distanza in caso di accordo tra tutte le parti del processo. Diverse le regole per le udienze del monocratico e per quelle cautelari: per queste ultime si prevedeva, evidentemente in ragione del contenuto valore della lite, per le prime, e dell’oggetto della decisione, incentrato sulla delibazione della sussistenza del
fumus boni iuris e del
periculum in mora, per le seconde, che esse “si svolgono esclusivamente a distanza, fatta salva la possibilità per ciascuna delle parti di richiedere nel ricorso, nel primo atto difensivo o nell’appello, per comprovate ragioni, la partecipazione congiunta all’udienza del difensore, dell’ufficio e dei giudici presso la sede della corte di giustizia tributaria” (tanto si desume dall’abrogando art. 16, comma 4, del d.lgs. n. 119 del 2018).
Il nuovo assetto della disciplina (la norma da ultimo citata era stata completamente riscritta dall’
art. 4, comma 4, della
legge n. 130 del 2022) tendeva a confermare la
centralità dell’udienza alla
presenza di tutte le parti (e ovviamente dei collegi giudicanti), nel presupposto che essa
garantisca il contraddittorio nella sua forma più piena e soddisfacente: il diritto a “guardare in faccia” il giudice non poteva in alcun modo essere negato alle parti processuali. La decisione di obbligare tutte le parti alla presenza in assenza di accordo tra loro sull’opzione telematica mirava inoltre a evitare le udienze miste, quelle in cui giudici e parti possono essere nella stessa udienza in presenza o a distanza: l’assunto, fors’anche discutibile ma sicuramente non irragionevole, era che la parità delle armi risulta garantita solo se contribuente e fisco abbiano la possibilità di interagire con il giudice in modo rigorosamente identico.
Diversamente si è posto
il legislatore della delega, individuando quale strumento per “ampliare e potenziare l’
informatizzazione della giustizia tributaria” la previsione che “la discussione da remoto possa essere chiesta anche da una sola delle parti costituite nel processo, con istanza da notificare alle altre parti, fermo restando il diritto di queste ultime di partecipare in presenza” (art. 19, comma 1, lett. b, n. 4, della l. n. 11 del 2023). Nello schema di decreto legislativo si era tuttavia andati ancora oltre, stabilendo che “i contribuenti e i loro difensori, gli enti impositori e i soggetti della riscossione, i giudici e il personale amministrativo delle Corti di giustizia tributaria di primo e di secondo grado possono
partecipare alle udienze di cui agli articoli 33 e 34
da remoto” (era l’art. 34-
ter del
D.Lgs. n. 546 del 1992). Si sarebbe potuto verificare quindi il seguente caso, per il vero surreale: la difesa di parte privata che avesse optato per la discussione in presenza (magari in una situazione in cui il proprio assistito vuole, ne ha tutti i diritti, partecipare alla discussione) si sarebbe potuta trovare a discutere la causa interagendo con dei
monitor nelle stanze della Corte (tanto valeva allora restare in studio!) in ragione della decisione di tutti gli altri “attori”, i giudici e il segretario di udienza non avevano peraltro obbligo di darne comunicazione, di partecipare da remoto. In tal modo, oltretutto, sarebbe venuta meno qualsiasi differenza tra discussione in pubblica udienza in presenza e da remoto, sempre che non si volesse fondare una qualche distinzione sul diverso luogo in cui la parte che avesse optato per la presenza si sarebbe dovuta confrontare con tutti gli altri, presenti solo in collegamento video (le aule della Corte di giustizia invece del proprio studio, ufficio, abitazione, etc.).
Il corto circuito era evidente e interveniva su un aspetto tutt’altro che irrilevante: il momento dell’udienza è quello in cui si avverte al massimo grado la solennità del processo, l’importanza e la dignità del giudicante, il profondo significato delle ritualità che debbono accompagnare il definitivo confronto tra i duellanti.
La norma contenuta nello schema di decreto, invece, rischiava di trasformare l’udienza in una vuota pantomima, il che appariva con ancora maggiore chiarezza alla luce dell’altro intervento sulla disciplina dell’udienza richiesto dalla delega e recepito nel decreto nella sua forma definitiva, quello concernente la
necessità di
leggere alle parti il
dispositivo al termine dell’udienza, “
salva la facoltà di riservarne il
deposito in segreteria e la sua contestuale comunicazione ai difensori delle parti costituite entro il termine perentorio dei successivi sette giorni” (nuovo
art. 35, comma 1, del
D.Lgs. n. 546 del 1992).
Soprattutto nelle cause complesse, infatti, la contestuale lettura del dispositivo imporrà al collegio di confrontarsi informalmente sui contenuti della controversia prima dell’udienza, con la conseguenza che quest’ultima diventerà ancora più importante perché solo in quella sede chi “parte dietro” potrà, grazie alla piena esplicazione del contraddittorio processuale, indurre nel collegio giudicante quel dubbio su cui dovrebbe fondarsi la decisione di riservare il deposito della sentenza (e quindi anche la sua comunicazione) nel termine di sette giorni. In altre parole, l’immediatezza della comunicazione dovrebbe influire necessariamente sulle modalità in cui l’udienza è tenuta, accentuandone il livello di solennità: se però si consente al giudice di non essere presente si rischia di trasformare l’udienza in un passaggio poco più che burocratico.
Bene quindi
ha fatto il Governo, dando peraltro seguito alla sollecitazione contenuta nel parere delle Commissioni riunite II e VI di Camera e Senato, a
specificare nel nuovo
art. 33, comma 1, del
D.Lgs. n. 546 del 1992 che “nel caso in cui
una parte chieda di
discutere in presenza i
giudici ed il
personale amministrativo partecipano sempre
in presenza alla discussione”.
È chiaro, la contemporaneità impone agli uomini di lasciare traccia del loro agire anche in luoghi in cui non sono fisicamente presenti, il che tuttavia non può dare origine a situazioni paradossali come quella descritta, l’udienza in presenza delle parti (o di una di esse) nell’assenza dei giudici (o di parte di essi) e, eventualmente, del segretario di udienza: troppo grave sarebbe stato il danno non solo per il diritto di difesa, che non sarebbe stato garantito pienamente, ma anche per la dignità di un processo che fatica da sempre a collocarsi allo stesso livello, per quel che riguarda le forme di tutela da riconoscersi al cittadino-contribuente, delle altre giurisdizioni..
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