Riforma del processo tributario: perché svilirne i contenuti è un errore
- 21 Gennaio 2023
- Posted by: Studio Pozzan
- Categoria: News Commercialista
Nel mentre si discute, sia in sede politica che dottrinale, delle prossime (e necessarie) riforme del sistema fiscale, ce ne è una, quella del processo tributario, che muove i suoi primi passi. E lo fa registrando, da un lato, le critiche dei molti che ne mettono in evidenza i limiti, ritenendola una occasione mancata e, dall’altro, i primi interventi della giurisprudenza (cfr., ad esempio, Cass. n. 31878/2022) dai quali sembra emergere un consistente ridimensionamento della natura innovativa di alcuni dei principi (nella specie dell’esempio, quello sull’onere della prova) che la stessa sembrava portare in dote.
Guardare a come gli operatori del diritto (ed in primis proprio la giurisprudenza) stanno reagendo a questa riforma risulta, a mio avviso, interessante per apprezzare l’atteggiamento di resistenza che spesso connota questo fondamentale settore dell’ordinamento, nel quale si è portati a non valorizzare quelle che sono, non solo delle concrete novità sul piano normativo, ma anche, “soltanto”, le linee di indirizzo che il legislatore ha inteso declinare nei propri interventi e che di questi hanno costituito il fondamento. Il che, evidentemente, assume un’importanza centrale nel momento in cui delle nuove disposizioni devono trovare concreta applicazione e dispiegare i loro (positivi) effetti, pochi o tanti che questi siano.
La stessa è stata adottata per assecondare l’esigenza, trasversalmente avvertita, di assicurare un profondo rinnovamento della giustizia tributaria, a fronte dello scadimento progressivo della qualità delle sentenze ma, soprattutto (e prima ancora), per restituire piena centralità all’istruttoria processuale, oggi troppo spesso gestita (senza ovviamente voler generalizzare) con una eccessiva superficialità, incompatibile con i caratteri di una funzione che coinvolge diritti soggettivi e interessi generali che meritano, per l’importanza che rivestano per la vita degli individui che vi sono coinvolti dal lato passivo, nonché per le aspettative della collettività, ben altra attenzione.
Ed allora, piuttosto che concentrarsi, come mi pare frequentemente stia emergendo nei primi approcci, su dei “particolarismi” funzionali di una lettura deteriore, sarebbe forse meglio cercare di apprezzare e declinare sul piano interpretativo questa ratio. Per considerare la quale, a me pare, sia significativo (se non centrale) considerare il contenuto del nuovo comma 5 bis dell’art. 7 del D.Lgs.n. 546/1992, ovvero proprio quella disposizione sulla quale si è registrato l’intervento (invero molto incidentale) della Cassazione che inizialmente citavo.
Sin qui tale norma (anche in questa prima pronuncia) è stata, in effetti, valorizzata nella prospettiva dell’onere probatorio che grava sull’Amministrazione finanziaria nel momento in cui difende processualmente la propria pretesa. E, per questo, è stata tendenzialmente ridimensionata nella sua portata, visto che sarebbe solo ricognitiva di principi già immanenti dell’ordinamento. Il che, a ben vedere, può forse valere per quanto la stessa stabilisce nella sua prima parte. Laddove il Legislatore indica che l’Ufficio “prova in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato”, non ha aggiunto molto a quanto già si sapeva, di fatto sposando la soluzione interpretativa affermatasi nel pluriennale (e giustamente non sopito) dibattito sul rapporto tra il contenuto della motivazione dell’atto e la relativa allegazione probatoria.
In altri termini, abbiamo in tal modo conferma che le prove che sorreggono la rettifica devono essere dalla parte pubblica prodotte nel processo, fermo restando che (a mio avviso come di molti) le medesime devono comunque essere enunciate nell’avviso di accertamento. E, sotto un altro punto di vista, vi si trova la conferma della centralità, anche in questo ambito, del criterio della vicinanza della prova che, invero, oggi deve essere apprezzato alla luce del progressivo ampliamento e del potenziamento dei poteri istruttori del Fisco.
In realtà, però, il cuore della nuova norma di scorge continuando a leggerla. Nella sua seconda enunciazione vi si trova, infatti, quello che va considerato un vero e proprio precetto per i giudici, i quali, già in questi giorni, vista la sua immediata applicazione, è opportuno che inizino a riflettere su come gestirne le inevitabili conseguenze sul loro lavoro.
Laddove, infatti, il legislatore indica che l’atto deve essere annullato “se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni”, pone un preciso limite a come la decisione deve essere assunta ed esternata.
Certamente non muta la regola secondo la quale (art. 116 c.p.c.) lo stesso giudice valuta gli elementi probatori “secondo il suo prudente apprezzamento”. Non si può, insomma, nemmeno ipotizzare (cosa che mi pare in effetti nessuno stia facendo) una mutuazione della regola penalistica che imporrebbe una valutazione dei fatti sui quali la pretesa si fonda “oltre ogni ragionevole dubbio”.
Ma, altrettanto certamente, la disposizione in questione, richiama alla stretta necessità di una valutazione attenta e rigorosa di quanto le parti hanno dedotto nel giudizio, la quale implica due precise conseguenze che, invero, intercettano proprio quelle esigenze la cui emersione, come inizialmente indicato, è stata alla base dell’intervento riformatore. Anzitutto, la centralità dell’istruttoria dibattimentale (alla quale, come effetto della nuova norma, fa riferimento anche la Cassazione nella citata sentenza n. 31878/2022), dall’altro il contenuto che dovrà avere la motivazione della decisione.
Sotto il primo versante, è auspicabile, in particolare, che cresca la consapevolezza che i fascicoli vanno aperti, studiati in modo puntuale e, magari, che le udienze pubbliche, senza che se ne pregiudichi l’efficiente speditezza dando il palcoscenico ad oratori pedanti, non sono delle corse sprint dove il più apprezzato è chi arriva al più presto alle conclusioni.
Quanto ai contenuti delle sentenze, sembra ovvio che anch’essi debbano essere “circostanziati e puntuali”, e privi di profili di “contraddittorietà”, nel senso di consentire alle parti di comprendere in termini chiari il percorso valutativo e di apprezzamento dei (contrastanti) profili emersi e che ha condotto a maturare il convincimento espresso nella decisione. Il che, a ben vedere, introdurrà importanti appigli in sede di impugnazione del soccombente, che ora avrà a disposizione un utile riferimento per argomentare la sussistenza di una condizione di “motivazione apparente”.
Ma non solo. Questa norma sarà (se utilmente valorizzata) anche un (auspicabile) argine a certe derive giurisprudenziali (il caso delle decisioni sul disconoscimento dell’inerenza dei costi è quello più gettonato nei primi commenti) che hanno portato non solo (e non tanto) a mettere in discussione le regole basiche della disciplina della prova nella definizione del rapporto impositivo ma, soprattutto, ad assistere ad una sorta di applicazione surrettizia del principio del “precedente vincolante”, con la quale la scelta di “non discostarsi dall’indirizzo giurisprudenziale maggioritario” è diventata il modo per obliterare la valutazione stessa delle circostanze e degli elementi addotti nello specifico caso.
Ovviamente, l’affermarsi di questi risultati (sempre che la posizione che ho espresso sia attendibile) dipenderà anche dalla capacità dei vari operatori di farli emergere, con un’attività processuale nella quale i principi che ho indicato vengano adeguatamente sostenuti.
Se poi, davvero, il tutto si tradurrà in un efficientamento del funzionamento del processo tributario, mutuando un noto adagio canoro, lo scopriremo solo vivendo.