Rivalsa dell’IVA: quando conviene accettare le contestazioni dell’Ufficio

Chi

Contribuenti soggetti passivi IVA che hanno subito una rettifica in accertamento, anche se definita in adesione, per acquiescenza, in conciliazione o per omessa impugnazione.

La circostanza che il soggetto accertato non sia titolare di partita IVA al momento dell’accertamento o negli anni accertati, non osta alla possibilità di riaddebitare il tributo in via di rivalsa, né all’esercizio del diritto alla detrazione da parte del cessionario/committente, laddove in sede di controllo sia successivamente constatato che il cedente/prestatore avrebbe dovuto assoggettare a IVA le operazioni effettuate e, conseguentemente, il cessionario/committente avrebbe avuto diritto alla detrazione dell’IVA relativa alle suddette operazioni. In tale evenienza il soggetto accertato potrà esercitare la rivalsa utilizzando la partita IVA attribuitagli d’ufficio in sede di accertamento (Agenzia delle Entrate, circolare 17 dicembre 2013, n. 35/E, risposta 2.5).

Cosa

L’art. 60, comma 7, D.P.R. n. 633/1972 prevede che il contribuente ha diritto di rivalersi, nei confronti dei cessionari dei beni o dei committenti dei servizi, dell’imposta o della maggiore imposta relativa ad avvisi di accertamento o rettifica.

In tal modo, il soggetto non resta inciso dal maggior tributo dovuto per effetto di accertamenti, in quanto può traslarlo legittimamente sui propri clienti (nei confronti dei quali sono state effettuate le operazioni che hanno dato luogo alla rettifica) i quali, a loro volta, hanno diritto alla detrazione (quindi, al recupero) dell’IVA loro addebitata in rivalsa.

Ad esempio

A effettua cessioni di beni a B, ritenendo che l’operazione sia esente da IVA. L’ammontare delle operazioni è pari a 100. In caso di accertamento in rettifica effettuato dall’Ufficio, secondo il quale le cessioni avrebbero dovuto, invece, essere assoggettate ad IVA con aliquota del 22%, il cedente diventa debitore dell’IVA non applicata, pari a 22 (oltre a interessi e sanzioni). In base alla norma citata, il cedente può addebitare l’IVA al proprio cessionario, così da non rimanere inciso dall’imposta dovuta. A sua volta, il cessionario che corrisponde l’IVA al proprio cedente, non rimarrà inciso dal tributo in quanto potrà esercitare il diritto di detrazione. In questo modo, l’IVA, in ossequio al principio di neutralità, non graverà sul conto economico né del cedente né del cessionario.

Si tratta di un istituto avente carattere facoltativo e natura privatistica, inerendo non al rapporto tributario ma ai rapporti interni fra i contribuenti, in base al quale:

a) il cedente può addebitare l’IVA da accertamento definitivo nei confronti dei cessionari dei beni o dei committenti dei servizi soltanto a seguito del pagamento dell’imposta o della maggiore imposta, delle sanzioni e degli interessi;

b) il cessionario o il committente può esercitare il diritto alla detrazione, al più tardi, con la dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello in cui ha corrisposto l’imposta o la maggiore imposta addebitata in via di rivalsa ed alle condizioni esistenti al momento di effettuazione della originaria operazione.

La possibilità di esercitare la rivalsa in presenza di atti di accertamento presuppone la definizione dell’accertamento ed il pagamento dell’imposta o della maggiore imposta, delle sanzioni e degli interessi.

Pertanto, la norma è applicabile quando un accertamento si rende definitivo (quindi, non più impugnabile) attraverso, ad esempio:

– l’adesione all’accertamento o al verbale di constatazione oppure ai contenuti dell’invito al contraddittorio;

– l’acquiescenza all’accertamento e la mancata impugnazione dell’atto di accertamento nei termini previsti dalla legge;

– la conciliazione giudiziale;

– la mancata impugnazione della sentenza favorevole all’Amministrazione finanziaria.

In pratica, quindi, l’IVA relativa all’accertamento divenuto definito mediante uno degli istituti sopra elencati, in caso di successivo pagamento delle somme dovute, potrà essere addebitata in via di rivalsa, ai sensi dell’art. 60, comma 7, D.P.R. n. 633/1972. Nel caso di pagamento rateale dell’imposta definitivamente accertata, il diritto alla rivalsa potrà essere esercitato in relazione al pagamento delle singole rate.

Inoltre, nell’ipotesi in cui l’IVA accertata sia assolta in parte mediamente versamento, in parte mediante compensazione con un credito riconosciuto, per esempio, in sede definizione dell’accertamento, l’ammontare di imposta oggetto di rivalsa non sarà limitato al minore importo dell’IVA pagata a mezzo F24 ma sarà pari all’ammontare complessivamente dovuto, ivi compresa la quota di debito estinta per compensazione.

La possibilità di addebitare la maggiore IVA a titolo di rivalsa è, inoltre, applicabile in caso di definizione agevolata delle controversie pendenti, ovviamente nei limiti degli importi pagati (risposte a interpello 23 aprile 2019 n. 128 e 129) e solo a seguito dell’avvenuto pagamento – in unica soluzione o mediante rate – dell’importo eventualmente da versare per la definizione e comunque decorso il termine previsto dal legislatore senza che via si stata la notifica del diniego alla definizione medesima (circolare 25 settembre 2017, n. 23/E, risposta 6.3). Si precisa che, come è stato chiarito, qualora il contribuente abbia deciso di appellare la sentenza di rigetto emessa dalla corte di giustizia di primo grado prima di accedere alla definizione, “la definitività dell’atto si determina con il passaggio in giudicato della sentenza che ha dichiarato l’estinzione del giudizio per cessata materia del contendere (per effetto della menzionata definizione agevolata), e non anche alla scadenza del termine […] entro cui può essere notificato il diniego della definizione”.
Non è, invece, consentita la rivalsa, né l’esercizio del diritto alla detrazione, dell’imposta o della maggiore imposta versata a seguito di atti non divenuti definitivi. Pertanto, deve escludersi che possa esercitarsi il diritto alla rivalsa dell’IVA versata in pendenza del giudizio avverso l’avviso di accertamento che ne contiene la liquidazione, in quanto la stessa risulta pagata all’Erario a titolo provvisorio. Naturalmente, laddove, in esito al giudizio, l’accertamento si consolidi, con conseguente acquisizione a titolo definitivo, da parte dell’Erario, delle somme pagate nel corso del contenzioso, si potrà esercitare la rivalsa, nei confronti del cessionario/committente, di quanto già versato (circolare 17 dicembre 2013, n. 35/E, risposta 2.2).

Come

L’esercizio della rivalsa in caso di accertamento presuppone la riferibilità dell’imposta accertata a specifiche operazioni e la conoscibilità del cessionario/committente, la definitività dell’accertamento e l’avvenuto versamento dell’imposta o della maggiore imposta accertata, delle sanzioni e degli interessi (ad esempio, quindi, la rivalsa non può essere esercitata in caso di operazioni al dettaglio, quando il cliente non è identificabile oppure se la maggiore imposta viene determinata dall’Ufficio in base ad accertamento induttivo).

La rivalsa è ammessa anche qualora la maggiore IVA sia calcolata su una base imponibile determinata in via forfetaria, laddove sia comunque riferibile a specifiche operazioni effettuate nei confronti di determinati cessionari o committenti (circolare 17 dicembre 2013, n. 35/E, risposta 1.1). Si pensi, ad esempio, all’ipotesi in cui, in sede di accertamento, le operazioni effettuate nei confronti di un soggetto – considerate esenti da IVA – siano ripartite forfetariamente tra operazioni imponibili ed operazioni esenti.
Al fine di esercitare il diritto alla rivalsa dell’IVA pagata a titolo definitivo in sede di accertamento il cedente/prestatore deve emettere una fattura elettronica (o una nota di variazione in aumento di cui all’art. 26, comma 1, D.P.R. n. 633 del 1972), con le indicazioni previste dall’art. 21 o 21-bis, D.P.R. n. 633/1972 e con gli estremi identificativi dell’atto di accertamento che costituisce titolo alla rivalsa. A tal riguardo, è stato precisato che la fattura/nota di variazione, se relativa ad operazioni per le quali la fattura non è stata emessa, dovrà esporre l’imponibile e l’imposta, mentre in presenza di una fattura già emessa può essere rilasciata una nota di variazione di sola IVA (risposta a interpello 22 dicembre 2023, n. 481).
Il documento deve essere annotato nel registro delle vendite (art. 23, D.P.R. n. 633/1972) solo per memoria, perché l’imposta recuperata a titolo di rivalsa non dovrà partecipare alla liquidazione periodica, né essere indicata in una posta a debito nella dichiarazione annuale in quanto è stata già versata all’Erario secondo le modalità previste per l’atto di accertamento.
Il diritto alla detrazione da parte del cessionario/committente è subordinato all’avvenuto pagamento dell’IVA accertata addebitata in via di rivalsa, mediante annotazione del documento emesso dal cedente (fattura o nota di variazione in aumento) nel registro degli acquisti (art. 25, D.P.R. n. 633/1972). La norma non prevede particolari oneri a carico del committente/cessionario in ordine al riscontro dell’avvenuto versamento all’Erario dell’imposta oggetto di accertamento; pertanto, questi è tenuto solo all’osservanza degli ordinari doveri di diligenza e cautela in ordine alla verifica della correttezza e regolarità della fattura (o della nota di variazione in aumento) emessa da parte del cedente/prestatore.

Nel caso di operazioni assoggettate a tributo mediante inversione contabile, qualora venga contestata una violazione IVA (ad esempio, l’applicazione di un’aliquota inferiore rispetto a quella dovuta), la maggiore imposta oggetto di accertamento concorrerà alla determinazione sia dell’IVA a debito sia dell’IVA detraibile; pertanto, il contribuente non sarà tenuto a versare alcun ammontare a titolo di imposta all’Erario, qualora sia riconosciuta la spettanza integrale della detrazione, perché la compensazione dell’imposta a debito e dell’imposta a credito è operata direttamente in sede di accertamento, senza che sia necessario procedere al pagamento dell’imposta accertata e alla sua successiva detrazione.

Relativamente alle altre ipotesi di coincidenza tra debitore e creditore d’imposta (importazioni, splafonamento, fusione e/o incorporazione), è stato precisato che, sebbene la norma non preveda specifici oneri, il contribuente può “predisporre un documento (al quale allegare per completezza l’atto di accertamento e l’attestato di versamento), da registrare ai sensi dell’art. 25 del D.P.R. n. 633 del 1972, dal quale si evinca l’ammontare dell’imposta versata a seguito di accertamento, nonché il titolo giustificativo della detrazione d’imposta (art. 60, settimo del D.P.R. n. 633 del 1972, estremi identificativi dell’accertamento). Tale documento non andrà annotato nel registro di cui all’art. 23 del D.P.R. n. 633 del 1972 e, dunque, non concorrerà alla determinazione dell’Iva dovuta sulle operazioni attive in fase di liquidazione periodica o di dichiarazione annuale” (circolare 17 dicembre 2013, n. 35/E, risposta 4.2).

Quando

Il contribuente ha diritto di rivalersi dell’imposta o della maggiore imposta relativa ad avvisi di accertamento o rettifica nei confronti dei cessionari dei beni o dei committenti dei servizi:

– quando l’accertamento è divenuto definitivo;

– soltanto a seguito del pagamento dell’imposta o della maggiore imposta, delle sanzioni e degli interessi.

La norma non prevede termini per esercitare la rivalsa. Poiché si tratta, come detto, di un istituto avente natura privatistica, in assenza di una previsione espressa, dovrebbe ritenersi che la rivalsa possa essere esercitata entro il termine prescrizionale ordinario di 10 anni, decorrente dalla data del pagamento, da parte del cedente/prestatore, di quanto dovuto all’Erario.

Il cessionario o il committente può esercitare il diritto alla detrazione, al più tardi, con la dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello in cui ha corrisposto l’imposta o la maggiore imposta addebitata in via di rivalsa ed alle condizioni esistenti al momento di effettuazione della originaria operazione (circa l’applicabilità del termine biennale, anche dopo la modifica dell’art. 19, D.P.R. n. 633/1972, si veda il principio di diritto 18 marzo 2019, n. 10).
Nell’ipotesi di revisione dell’accertamento doganale, a seguito della quale l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli accerta una maggiore IVA relativa all’importazione, il termine per esercitare la detrazione decorre dal pagamento della maggiore imposta accertata dall’Agenzia in capo all’importatore in sede di revisione (circolare 17 dicembre 2013, n. 35/E, risposta 3.2).

In caso di “splafonamento” da parte dell’esportatore abituale, questi potrà esercitare il diritto alla detrazione, al più tardi, con la dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello in cui il medesimo ha provveduto al pagamento dell’imposta, della maggiore imposta, delle sanzioni e degli interessi, a seguito della contestazione della violazione.

Calcola il risparmio

L’IVA risultante da accertamenti e rettifica, se non ribaltata sul cessionario/committente, costituisce un costo per il cedente/prestatore.

Risparmio %

Caso n. 1

A una società viene contestata la fatturazione irregolare, per applicazione di aliquota inferiore a quella dovuta (10% anziché 22%) nei confronti di un determinato cessionario, per gli anni 2020 e 2021.

2020

Imponibile: 80.000 euro

IVA applicata: 8.000 euro

IVA dovuta: 17.600 euro

Differenza: 9.600 euro

Violazioni contestate (si ipotizza l’applicazione delle sanzioni in misura minima):

– Infedele fatturazione: 8.640 euro

– Infedele dichiarazione: 8.640 euro

– Cumulo giuridico: 10.800 euro

2021

Imponibile: 100.000 euro

IVA applicata: 10.000 euro

IVA dovuta: 22.000 euro

Differenza: 12.000 euro

Violazioni contestate (si ipotizza l’applicazione delle sanzioni in misura minima):

– Infedele fatturazione: 10.800 euro

– Infedele dichiarazione: 10.800 euro

– Cumulo giuridico: 13.500 euro

2020 2021

Cumulo giuridico: 20.250 euro (10.800 + 5.400 + 4.050)

La maggiore IVA dovuta dalla società per la errata applicazione dell’aliquota (21.600 euro), se non ribaltata sul cessionario diventa un costo per l’azienda, peraltro nemmeno deducibile ai fini delle imposte sui redditi (art. 99, comma 1, TUIR).

Invece, in caso di ribaltamento dell’IVA sul cessionario, si avrebbe la seguente situazione (si ipotizza che la violazione sia definita in adesione. Si ricorda che nei casi di accertamento con adesione le disposizioni sul cumulo giuridico si applicano separatamente per ciascun tributo e per ciascun periodo d’imposta):

2020

Pagamento dell’IVA all’Erario: 9.600 euro (più interessi al 3,5%/anno)

Sanzione: 3.600 euro

Incasso dell’IVA dal cessionario: 9.600 euro

Detrazione IVA da parte del cessionario: 9.600 euro

Situazione cedente:

Incassa 9.600 euro

Paga 9.600 euro (+ interessi) + 3.600 euro

Differenza a suo carico: 3.600 euro (+ interessi sull’imposta)

Situazione cessionario

Paga a cedente 9.600 euro

Recupera in detrazione 9.600 euro

Differenza: 0

2021

Pagamento dell’IVA all’Erario: 12.000 euro (più interessi al 3,5%/anno)

Sanzione: 4.500 euro

Incasso dell’IVA dal cessionario: 12.000 euro

Detrazione IVA da parte del cessionario: 12.000 euro

Situazione cedente:

Incassa 12.000 euro

Paga 12.000 euro (+ interessi) + 4.500 euro

Differenza a suo carico: 4.500 euro (+ interessi sull’imposta)

Situazione cessionario

Paga a cedente 12.000 euro

Recupera in detrazione 12.000 euro

Differenza: 0

Caso n. 2

A una società viene contestata la vendita di beni al dettaglio con applicazione di aliquota inferiore a quella dovuta (10% anziché 22%) nei confronti di cessionari non identificabili per gli anni 2020 e 2021.

2020

Imponibile: 80.000 euro

IVA applicata: 8.000 euro

IVA dovuta: 17.600 euro

Differenza: 9.600 euro

2021

Imponibile: 100.000 euro

IVA applicata: 10.000 euro

IVA dovuta: 22.000 euro

Differenza: 12.000 euro

In questo caso, non è possibile rivalersi sui cessionari/committenti dalla maggiore IVA accertata.

Pertanto, l’importo dell’IVA pari a 21.600 euro, oltre alle sanzioni e agli interessi, sarà dovuto dal cedente/prestatore e graverà sul suo conto economico.

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