Rivalutazione delle partecipazioni sociali. La “stabilizzazione” del doppio regime di tassazione esclude l’abuso del diritto?

La legge di Bilancio 2025 prevede la “stabilizzazione” del doppio regime di tassazione (ordinario e speciale) delle plusvalenze derivanti dalla cessione di partecipazioni sociali al di fuori dell’esercizio di imprese commerciali. Si toglie, dunque, ogni alibi a chi riteneva che la rivalutazione del costo di acquisto fosse un’agevolazione gentilmente concessa dal legislatore, il cui risultato favorevole dovesse comunque essere posto sotto la lente di ingrandimento della disciplina dell’abuso del diritto. Il primo importante riflesso si ha nel caso di recesso con acquisto di azioni proprie, dove il socio (re)cedente può fruire appieno dell’alternativa di tassazione “ordinaria” o “speciale” delle plusvalenze realizzate. Non ha quindi (più) senso parlare di abuso del diritto, ma questo lo deve riconoscere anche l’Agenzia delle Entrate.

Con la legge di Bilancio 2025 diventa definitivo – dopo un quarto di secolo (!) – il doppio regime di tassazione delle plusvalenze derivanti dalla cessione di partecipazioni sociali al di fuori dell’esercizio di imprese commerciali.

Il contribuente, infatti, potrà liberamente scegliere fra:

– il regime ordinario” (articoli 67 e 68 TUIR), secondo cui la plusvalenza viene determinata in modo analitico, quale differenza tra il corrispettivo percepito al momento della cessione ed il valore fiscalmente riconosciuto della partecipazione (costo di acquisto assoggettato a tassazione, aumentato di ogni onere inerente alla sua produzione, compresa l’imposta di successione e donazione), e dove tale importo è assoggettato ad un’imposta sostitutiva del 26%;
– il regime speciale” previsto dall’art. 5 della legge n. 448/2001 (che oggi viene appunto stabilizzato, eliminando ogni riferimento a date finale di possibile fruizione), secondo cui l’imposta sostitutiva, adesso elevata al 18%, si applica – a prescindere dall’originario valore di acquisto – sul valore normale della partecipazione all’inizio di ciascun periodo d’imposta, come rivalutato in base ad una perizia giurata di stima redatto da un professionista abilitato, mentre il regime ordinario resta applicabile solo per l’eventuale maggior plusvalenza, realizzata quale differenza fra prezzo di cessione e valore così rivalutato.

La scelta fra i due regimi è del tutto libera e facoltativa da parte di ciascun cedente, e ciò anche nel caso in cui sia la società, le cui quote sono oggetto di cessione, a far predisporre la perizia nell’interesse dei soci.

La convenienza a scegliere il regime “ordinario” o il regime “speciale” dipende non solo dall’aliquota dell’imposta sostitutiva, ma anche dal diverso peso che ha il costo d’acquisto della partecipazione nel calcolo della base imponibile: questo rileva, infatti, solo nel regime ordinario, ma non ha alcuna influenza nel caso in cui si opti per la sua rivalutazione, secondo il regime speciale.

Ecco perché si è in presenza di due opzioni completamente alternative fra di loro, il cui risultato, se favorevole al contribuente, rientra pienamente nella definizione di legittimo risparmio fiscale di cui all’art. 10-bis dello Statuto dei contribuenti, secondo il quale resta ferma la libertà di scelta del contribuente tra regimi opzionali diversi offerti dalla legge, anche se comportano fra loro un diverso carico fiscale.

Questa “stabilizzazione” del doppio regime toglie ogni alibi a chi riteneva che il regime speciale fosse una sorta di agevolazione gentilmente concessa dal legislatore, il cui risultato favorevole dovesse comunque essere posto sotto la lente di ingrandimento della disciplina dell’abuso del diritto.

Ci riferiamo, in particolare, all’ipotesi di recesso del socio di società di capitali.

In questi casi, la prassi amministrativa – che si basa sulla ormai datata circolare n. 16/E del 2005, ma che è stata recentemente confermata dalla risposta ad interpello n. 195/2024 – tende a considerare abusiva la scelta di effettuare l’operazione di recesso mediante acquisto di azioni proprie da parte della società (c.d. recesso atipico), piuttosto che quella di effettuare la liquidazione in denaro della quota spettante al socio (c.d. recesso tipico), se tale scelta è finalizzata a far godere ai soci della “agevolazione” prevista dall’art. 5 della legge n. 448/2001, realizzando così un vantaggio fiscale indebito.

In realtà, deve essere chiaro che, nella disciplina civilistica del recesso, la liquidazione in denaro al socio recedente è l’extrema ratio, in quanto è l’operazione che la società deve porre in essere solo nel caso di esito negativo circa l’esistenza di offerte di acquisto delle quote del socio recedente da parte degli altri soci, ovvero di soggetti terzi, ivi compreso l’acquisto di azioni proprie da parte della società medesima.

Per quanto appena detto, è oggi indubbio che sia nel caso di alienazione a terzi, sia nel caso di acquisto di azioni proprie, il socio (re)cedente possa fruire appieno dell’alternativa di tassazione “ordinaria” o “speciale” delle plusvalenze realizzate, senza alcuna ricaduta in ambito di valutazione anti-abuso dell’operazione.

Non ha dunque senso parlare di abuso del diritto, confrontando fra loro la sola ipotesi di acquisto di azioni proprie con quella del recesso tipico, per il fatto che in quest’ultimo caso l’operazione è configurata fiscalmente come realizzativa di un reddito di capitale, e come tale soggetta sempre all’unico regime dell’imposta sostitutiva al 26%. Anche in questa ipotesi è indubbio che si resti sempre nell’ambito della libera scelta del contribuente “tra operazioni comportanti un diverso carico fiscale” (come testualmente recita l’art.10-bis dello Statuto), in quanto si tratta di operazioni aventi pari dignità giuridica secondo l’ordinamento positivo.

Contiamo dunque che intervenga al più presto una complessiva riconsiderazione della disciplina del recesso da parte dell’Agenzia delle Entrate, nell’ottica appena riportata.

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