La legge di Bilancio 2025 prevede la “stabilizzazione” del doppio regime di tassazione (ordinario e speciale) delle plusvalenze derivanti dalla cessione di partecipazioni sociali al di fuori dell’esercizio di imprese commerciali. Si toglie, dunque, ogni alibi a chi riteneva che la rivalutazione del costo di acquisto fosse un’agevolazione gentilmente concessa dal legislatore, il cui risultato favorevole dovesse comunque essere posto sotto la lente di ingrandimento della disciplina dell’abuso del diritto. Il primo importante riflesso si ha nel caso di recesso con acquisto di azioni proprie, dove il socio (re)cedente può fruire appieno dell’alternativa di tassazione “ordinaria” o “speciale” delle plusvalenze realizzate. Non ha quindi (più) senso parlare di abuso del diritto, ma questo lo deve riconoscere anche l’Agenzia delle Entrate.
Il contribuente, infatti, potrà liberamente scegliere fra:
La scelta fra i due regimi è del tutto libera e facoltativa da parte di ciascun cedente, e ciò anche nel caso in cui sia la società, le cui quote sono oggetto di cessione, a far predisporre la perizia nell’interesse dei soci.
La convenienza a scegliere il regime “ordinario” o il regime “speciale” dipende non solo dall’aliquota dell’imposta sostitutiva, ma anche dal diverso peso che ha il costo d’acquisto della partecipazione nel calcolo della base imponibile: questo rileva, infatti, solo nel regime ordinario, ma non ha alcuna influenza nel caso in cui si opti per la sua rivalutazione, secondo il regime speciale.
Ecco perché si è in presenza di due opzioni completamente alternative fra di loro, il cui risultato, se favorevole al contribuente, rientra pienamente nella definizione di legittimo risparmio fiscale di cui all’art. 10-bis dello Statuto dei contribuenti, secondo il quale resta ferma la libertà di scelta del contribuente tra regimi opzionali diversi offerti dalla legge, anche se comportano fra loro un diverso carico fiscale.
Questa “stabilizzazione” del doppio regime toglie ogni alibi a chi riteneva che il regime speciale fosse una sorta di agevolazione gentilmente concessa dal legislatore, il cui risultato favorevole dovesse comunque essere posto sotto la lente di ingrandimento della disciplina dell’abuso del diritto.
Ci riferiamo, in particolare, all’ipotesi di recesso del socio di società di capitali.
In realtà, deve essere chiaro che, nella disciplina civilistica del recesso, la liquidazione in denaro al socio recedente è l’extrema ratio, in quanto è l’operazione che la società deve porre in essere solo nel caso di esito negativo circa l’esistenza di offerte di acquisto delle quote del socio recedente da parte degli altri soci, ovvero di soggetti terzi, ivi compreso l’acquisto di azioni proprie da parte della società medesima.
Per quanto appena detto, è oggi indubbio che sia nel caso di alienazione a terzi, sia nel caso di acquisto di azioni proprie, il socio (re)cedente possa fruire appieno dell’alternativa di tassazione “ordinaria” o “speciale” delle plusvalenze realizzate, senza alcuna ricaduta in ambito di valutazione anti-abuso dell’operazione.
Non ha dunque senso parlare di abuso del diritto, confrontando fra loro la sola ipotesi di acquisto di azioni proprie con quella del recesso tipico, per il fatto che in quest’ultimo caso l’operazione è configurata fiscalmente come realizzativa di un reddito di capitale, e come tale soggetta sempre all’unico regime dell’imposta sostitutiva al 26%. Anche in questa ipotesi è indubbio che si resti sempre nell’ambito della libera scelta del contribuente “tra operazioni comportanti un diverso carico fiscale” (come testualmente recita l’art.10-bis dello Statuto), in quanto si tratta di operazioni aventi pari dignità giuridica secondo l’ordinamento positivo.
Contiamo dunque che intervenga al più presto una complessiva riconsiderazione della disciplina del recesso da parte dell’Agenzia delle Entrate, nell’ottica appena riportata.
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