Sentenze tributarie in forma semplificata: perché non è una buona novella
- 16 Dicembre 2023
- Posted by: Studio Pozzan
- Categoria: News Commercialista
Condivisibile è certamente l’obiettivo “di rendere il processo tributario più rapido” (Relazione illustrativa allo Schema di decreto), anche se il tempo medio di smaltimento dei giudizi di merito risulta relativamente contenuto (nel 2022 è stato pari a 428 giorni, presso le Corti di primo grado, e a 734 giorni, presso le Corti d’appello); il vero “ingorgo” è, infatti, causato dall’arretrato da snellire in Cassazione, ove al 31 dicembre 2022 risultavano pendenti 44.940 ricorsi tributari: solo 1.760 ricorsi in meno rispetto a quelli pendenti al 31 dicembre 2021 (cfr. Relazione annuale del MEF sul monitoraggio dello stato del contenzioso tributario, pubblicata a giugno 2023).
La sentenza in forma semplificata ha una sua peculiare ratio nel rito amministrativo, nell’ambito del quale, all’esito della camera di consiglio fissata per la trattazione dell’incidente cautelare o dell’udienza fissata in sede di decisione sui mezzi istruttori, il collegio giudicate informa le parti costituite di voler definire immediatamente la causa.
Tale vantaggio in termini di ragionevole durata del processo non può, invece, essere percepito nel giudizio tributario, ove la trattazione delle controversie risulta già concentrata in un’unica udienza (in camera di consiglio o, su istanza di parte, con discussione pubblica). Rispetto alle cause che si esauriscono in una sola udienza non si comprende, quindi, come l’istituto in discorso possa sveltire i tempi di una procedura non ulteriormente comprimibile.
La sentenza in forma breve sembra – piuttosto – costituire una sorta di legittimazione alla redazione succinta di testi di pronunciamenti che – agli occhi di chi scrive – non appaiono eccessivamente prolissi (e, quindi, bisognosi di un argine normativo).
Tutt’altro!
Lungaggini talvolta comporta la pubblicazione di sentenze laboriose su vicende complesse, ma rispetto a tale ipotesi la novella non è di aiuto.
Il legislatore delegato, infatti, precisa che la motivazione della sentenza potrà consistere “in un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo ovvero, se del caso, a un precedente conforme” (art. 34-bis cit.).
L’applicazione di tale disposizione potrebbe incentivare il giudice a cedere alla tentazione di ricercare e valorizzare nel caso concreto sottoposto al suo esame solamente quegli elementi che gli consentono agevolmente di applicare il principio di diritto “di pronta soluzione” affermato in un precedente, assunto (evidentemente) come vincolante, sulla scorta di un approccio più tipico dei sistemi di Common law che del nostro. Non è, peraltro, richiesto che il precedente su cui ci si appoggia sia espressione di un orientamento interpretativo considerato dal giudice (a torto o a ragione) come maggioritario.
Il rischio di una de-responsabilizzazione dei giudicanti (il c.d. “effet moutonnier”, come è stato efficacemente denominato da Antoine Garapon) è particolarmente pernicioso con riguardo a fattispecie rispetto alle quali si sono consolidate presunzioni di fonte giurisprudenziale. Ci si riferisce a quegli orientamenti della Corte di Cassazione che, a causa di massimazioni scorrette di decisioni su temi di prova, hanno finito con il creare una regola (non prevista nel diritto positivo) a partire da una ricorrenza (registrata nella prassi). Ne sono esempi la distribuzione di utili occulti nelle società a ristretta base azionaria, l’accertamento della buona fede dell’acquirente ai fini dell’esercizio del diritto di detrazione IVA nei casi di operazioni inesistenti, le contestazioni di antieconomicità dei costi d’impresa, ma l’elenco potrebbe essere molto più lungo. Appare rischioso che in cause che riguardano questi temi il giudice, anziché condurre un accertamento caso per caso sugli specifici elementi di fatto che connotano la singola controversia (e motivare in modo esauriente rispetto alla relativa decisione assunta), possa sbrigativamente uniformarsi ad “un precedente” (solo apparentemente) “conforme”.
L’introduzione dell’art. 34-bis cit. potrà spiegare un’utilità pratica ai fini della velocizzazione dei processi nei soli casi in cui il ricorrente chieda al giudice di sospendere nelle more del giudizio l’esecuzione dell’atto impugnato. In tali ipotesi, tuttavia, si potrebbe determinare un effetto incongruo: al contribuente che sollecita una tutela in più rispetto all’annullamento dell’atto dell’Amministrazione finanziaria, il giudice in sede di udienza cautelare, in luogo della pronuncia (con ordinanza) sulla sospensione della riscossione, potrebbe prospettare una reiezione del ricorso stesso, se ravvisa la sussistenza di elementi evidenti che consentano per tabulas di raggiungere subito una decisione abbreviata.
In tali situazioni, ad essere “semplificato” non è solo il testo della motivazione della sentenza, ma l’iter processuale stesso attraverso cui il giudice perviene alla definizione rapida della causa.
La nuova disciplina, peraltro, non mette a disposizione della parte che si vede prefigurare dal giudice una decisione a sé sfavorevole alcuno strumento per reagire, non fosse altro per sollecitare una discussione su aspetti della causa controversa che, in ottica difensiva, si ritiene che il giudicante non abbia adeguatamente valorizzato.
L’applicazione nel rito tributario di questo istituto di matrice amministrativa rischia, quindi, di alterare le regole del gioco processuale, pregiudicando il rispetto del diritto di difesa delle parti, nonché – nel caso di decisione assunta in sede cautelare – del principio di pubblicità del processo.
Si delinea, dunque, un nuovo modulo di giudizio, (forse) più celere, ma (sicuramente) meno garantito per entrambi i soggetti in lite.