Statuto del Contribuente: bene un aggiornamento, da parte (però) del Parlamento

Il disegno di legge delega per la riforma fiscale prefigura l’emanazione di una legge che autorizzerà il Governo a procedere, attraverso l’adozione in tempi contingentati di uno o più decreti legislativi, ad una (generale) “revisione del sistema tributario” (art. 1) e ad una (particolare) “revisione dello Statuto dei diritti del contribuente” (art. 4).

Nel merito, fra i principi e criteri direttivi specifici che dovrebbero guidare la riscrittura delle disposizioni dello Statuto, alcuni sono pienamente condivisibili, mentre altri risultano poco giustificabili, non necessari, indeterminati o fuori contesto.

Apprezzabile è sicuramente la scelta di introdurre in ambito tributario “una disciplina generale del diritto di accesso agli atti” (lett. d), volta ad estendere ai privati tutele finora (in parte) accordate solo in via giurisprudenziale (e.g. Consiglio di Stato, sent. n. 3492 del 4 maggio 2021 e n. 4 del 14 marzo 2022; Corte di giustizia UE, 4 giugno 2020, causa C?430/19 e 16 ottobre 2019, causa C-189/18).

Contribuirà certamente all’attuazione di un modello relazionale più moderno fra Amministrazione finanziaria e contribuenti una “generale applicazione del principio del contraddittorio a pena di nullità” (lett. e), sollecitata di recente dalla Corte costituzionale (sent. n. 47 del 21 marzo 2023) e precorsa – nel circoscritto ambito della fiscalità armonizzata – dalla giurisprudenza unionale (e.g. Corte giust. UE, 24 febbraio 2022, causa C-582/20; 18 dicembre 2008, causa C-349/07, e 22 ottobre 2013, causa C-276/12).

Non del tutto giustificata appare, invece, la scelta di “ridurre il ricorso all’istituto dell’interpello”, incoraggiando l’emanazione di “provvedimenti interpretativi di carattere generale” (lett. c, n. 1). La possibilità di interpellare l’Amministrazione finanziaria per ottenere una risposta riguardante una fattispecie concreta e personale costituisce un “diritto” soggettivo del contribuente (come recita l’attuale rubrica dell’art. 11 dello Statuto), il cui esercizio comporta degli effetti (i.e. la nullità degli atti impositivi o sanzionatori difformi dalla risposta, espressa o tacita, resa al singolo) diversi da quelli previsti nel caso in cui il soggetto passivo si conformi ad indicazioni erga omnes dell’Amministrazione finanziaria (che conserva il potere/dovere di richiedere il “giusto” tributo, dovuto in base alla legge, anche smentendo quanto esplicitato in proprie istruzioni di condotta). Non si rivela corretta, quindi, la contrapposizione fra provvedimenti individuali e provvedimenti di carattere generale: per limitare il numero di interpelli occorre creare un patrimonio condiviso di soluzioni interpretative, stimolando la pubblicazione delle risposte agli interpelli, non certo promuovendo (poco trasparenti) riscontri “mediante servizi di interlocuzione rapida” con “le persone fisiche e i contribuenti di minori dimensioni” (lett. c, n. 3). Se il quesito è ammissibile (in quanto non trova soluzione in documenti interpretativi già emanati), il privato dovrebbe restare libero di agire, in modo pieno e immediato (e senza oneri), per ottenere chiarimenti sul proprio rapporto d’imposta e prevenire possibili situazioni di conflitto con il Fisco.

Il disegno di legge prevede, inoltre, che la motivazione degli atti impositivi dia conto (anche) delle “prove su cui si fonda la pretesa” (lett. a). Ma tale esigenza discende dalla considerazione che l’Amministrazione finanziaria deve dare in primis a se stessa la prova della fondatezza della rettifica, prima della notificazione dell’atto, e risulta già contemplata nel vigente art. 7 dello Statuto del Contribuente (oltre che nell’art. 42 del D.P.R. n. 600/1973 e nell’art. 3 della legge n. 241/1990), che ricorre all’endiadi “i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche” per indicare il contenuto indefettibile della motivazione degli atti amministrativi. Peraltro, il nuovo standard probatorio delle pretese tributarie introdotto dalla regola processuale secondo cui l’“Amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato” (ex art. 7, comma 5-bis, del D.Lgs. n. 546/1992) non può che riflettersi anche nella prodromica fase procedimentale, imponendo che l’atto accertativo da notificare al contribuente risulti fondato. Quindi, l’annunciato intervento revisionistico, più che dare forza a quanto emerge già dal sistema, corre il rischio di apparire inutilmente e dichiaratamente di parte.

Il disegno di legge delega prefigura, inoltre, l’introduzione di misure condivisibili, che dovrebbero, tuttavia, trovare sede in corpi normativi diversi dallo Statuto del Contribuente.

In tema di vizi degli atti impositivi e della riscossione sarebbe certamente utile sistematizzarne le fattispecie patologiche e le relative conseguenze invalidanti (i.e. irregolarità, annullabilità, nullità, sanabilità, inesistenza giuridica). Una “disciplina generale delle invalidità” (lett. f), finalizzata – auspicabilmente – a superare l’incongrua mutuazione in ambito tributario della (problematica) disciplina delle invalidità dei provvedimenti amministrativi (i.e. artt. 21-septies e 21-octies della legge n. 241/1990), dovrebbe trovare più opportuno spazio nell’ambito delle disposizioni comuni in materia di accertamento e di riscossione, in considerazione delle diverse sequenze procedimentali che conducono all’emanazione dell’attuale variegata tipologia di atti.

In tema di autotutela, posto che non è disconosciuto il potere/dovere dell’Agenzia delle Entrate di emendare gli atti impositivi, ancorché definitivi (anche nei casi di errori non manifesti), la lodevole introduzione dell’ipotesi di “impugnabilità del diniego” espresso e del silenzio rifiuto di autotutela (lett. g) dovrebbe trovare più coerente collocazione in seno alla regola sulla predeterminazione normativa degli atti autonomamente impugnabili (i.e. l’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992).

Infine, altri criteri enunciati nel disegno di legge sembrano poco “direttivi”: la valorizzazione del “principio del legittimo affidamento del contribuente” e di “certezza del diritto” (lett. b) non è nulla di più di un papier de chiffon, che – di fatto – lascia mano libera all’Esecutivo, per usare le parole del Prof. Gianni Marongiu. Il padre dello Statuto del Contribuente, infatti, nel censurare l’ipertrofico ruolo della burocrazia ministeriale, ammoniva in merito alla radicale differenza tra la procedura ordinaria di approvazione delle leggi (che postula il dibattito nelle Commissioni parlamentari, le relazioni delle minoranze, la formazione di lavori preparatori, il bilanciamento dei diversi interessi in gioco attraverso la discussione pubblica in aula tra i rappresentanti di tutti i cittadini) e quelle per l’emanazione degli atti aventi forza di legge, che rendono meno visibile (se non addirittura mortificato) il confronto e impediscono di distinguere nettamente l’Amministrazione finanziaria dal Legislatore.

Trascorsi più di vent’anni dalla sua entrata in vigore, la Magna Carta delle garanzie dei contribuenti, più che di una vera e propria “revisione”, necessita di un “aggiornamento”, che dovrebbe comunque restare appannaggio esclusivo delle nostre assemblee elettive.

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