Com’è noto, ma è bene darne ancora risalto, due erano i capisaldi tracciati dall’art. 18 della legge delega:
1) il progressivo superamento dello strumento del ruolo e dell’intrinsecamente correlata cartella di pagamento attraverso l’ulteriore potenziamento e la semplificazione disciplinare dei cosiddetti atti impoesattivi, di cui all’art. 29, comma 1, D.L. n. 78 convertito in
legge n. 122/2010;
2) l’abolizione dell’attuale sistema “dualistico”, caratterizzato dalla distinta operatività dell’Agenzia delle Entrate, titolare della funzione propriamente impositiva e destinataria finale del buon esito della riscossione, da un lato, e, dall’altro lato, secondo appunto la distinzione dualistica frutto di risalenti ascendenze canonistiche (per il recupero delle “decime”), l’Agente della riscossione (transitato, da ultimo, dalla tradizionale figura dell’esattore a quella del concessionario della riscossione, e poi ancora, da Equitalia ad Agenzia delle Entrate-Riscossione).
Dall’esame, a caldo, del testo del decreto attuativo, all’esame del Consiglio dei Ministri dell’11 marzo, emerge
prima facie un significativo (anche se non completamente risolutivo)
progresso nell’attuazione del primo di questi due obiettivi. Essendo stato decisamente ampliato, con l’art. 13, recante “Adeguamento delle disposizioni in materia di concentrazione della riscossione nell’accertamento”, il catalogo degli atti concentrativi della riscossione nell’accertamento di cui al citato
art. 29,
D.L. n. 78/2010 (pur senza l’auspicato apporto di una più ampliata e lineare regolamentazione disciplinare, specie in ordine all’introduzione di appropriati termini decadenziali che ne incentivino la concreta realizzazione).
Latita, invece, l’altro essenziale profilo della presenza o meno di un sistema dualistico e dei rapporti, se ancora debbano così sussistere o meno, tra questi soggetti. Nulla, infatti, viene detto in questo decreto attuativo. E, anzi, dev’essere al riguardo rimarcata una situazione di vera e propria antitesi strutturale di fondo, che rischia di pregiudicarne in limine il concreto avvio della riformata riscossione fiscale in atto.
Si dà il caso, infatti, che, allo stato, vige, non essendo stato in alcun modo abrogato, l’art. 39, D.Lgs. n. 112/199 (il quale, si noti, non è certo nato con siffatta norma, ma discende, secondo una continuità nomopoietica ben radicata, dall’
art. 40,
D.P.R. n. 43/1988,
et ita palin, dall’art. 77 del T.U.S.R.I.D. n. 858/1963, e dai Capitoli Normali per l’esercizio delle leggi sui servizi della riscossione delle imposte dirette, approvato con D.M. 18 settembre 1923 e, giù giù sino alle remote fonti del diritto canonico). In conseguenza del quale disposto normativo, tra titolare del credito tributario e agente della riscossione esiste, sul doppio versante processuale e sostanziale, un rapporto c.d. di “
sostituzione processuale” (
art. 81 c.p.c.), in forza del quale, tra l’altro e significativamente, la sentenza passata in giudicato nei confronti dell’uno di questi due soggetti ha effetti diretti anche nei confronti dell’altro (
ex art. 111, comma 4, c.p.c.).
Ma si dà il caso, altresì, che, con l’
art. 14, comma 6-
bis,
D.Lgs. n. 546/1992, recentemente aggiunto dall’
art. 1, comma 1, lettera d), del D.Lgs. n. 220/2023, si è, viceversa, generalmente disposto che, “in caso di vizi della notificazione eccepiti nei riguardi di un atto presupposto emesso da un soggetto diverso da quello che ha emesso l’atto impugnato, il ricorso è sempre proposto nei confronti di entrambi i soggetti”, e, così, stabilendo che tra
ente impositore e
agente della riscossione sussiste un vero e proprio “
litisconsorzio necessario”, il quale istituto, com’è noto, è l’antitesi logica di quello della sostituzione processuale, atteso che nel caso di sostituzione processuale gli effetti delle sentenze definitivamente rese nei confronti di uno dei due soggetti vale
illico et immediate anche nei confronti dell’altro, mentre nel caso di litisconsorzio necessario, la sentenza, pur se definitiva, emessa nei confronti di uno dei litisconsorti necessari non vale affatto (ed, anzi, è, come si suol dire,
inutiliter data) nei confronti dell’altro, dovendo un’unica sentenza essere indisgiungibilmente lata nei confronti di tutti i soggetti della sola causa di cui debbono far tutti parte.
Tanto per esemplificare, in base a quest’ultima disposizione, ormai pienamente operante per tutti i giudizi instaurati dopo il 5 gennaio di quest’anno, ai giudizi proposti avverso l’agente della riscossione per l’impugnativa di una cartella o di un’intimazione di pagamento (o, addirittura, di un pignoramento) nessuna pronuncia può essere assunta dal giudice tributario senza la partecipazione necessaria dell’Agenzia delle Entrate di cui si assuma sia stato irritualmente notificato l’atto prodromico. E se ciò non avviene, il giudice, ne deve ordinare l’obbligatoria partecipazione al giudizio in ogni stato e grado, risultando inutiliter data la decisione altrimenti emessa.
Se così è,
de lege lata, come allora la mettiamo con l’
art. 39,
D.Lgs. n. 112/1999, di cui anche la giurisprudenza della Suprema Corte predica l’interpretazione e l’applicazione nel senso, appunto, della non esistenza di alcun litisconsorzio necessario tra ente impositore e agente della riscossione e dell’autonoma diretta efficacia invece del giudicato nei confronti sia dell’uno che dell’altro di questi soggetti?
Se il legislatore non si decide a risolvere queste antinomie strutturali, il cammino della nuova riscossione fiscale è destinato a nascer morto.
E, tanto vale, allora, che, una volta per tutte, mettendo mano alla borsa, ci si decida infine di sciogliere il vero nodo gordiano di tutto questo marasma, che è, come tutti ben sanno, l’attuale divario degli stipendi dei dipendenti dell’uno e dell’altro di questi soggetti.
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