Sulla riforma fiscale incombe il “pasticciaccio brutto” delle opposizioni esecutive ai giudici tributari

Nell’ultimo editoriale del 10 agosto 2023 si era dato conto dell’art. 18 di quella che nel frattempo è ora diventata la legge n. 111/2023, vigente al 29 agosto 2023, facendo peraltro rimarcare che la revisione del sistema nazionale della riscossione non si limitava al solo art. 18, riguardando anche in parte il successivo art. 19. A quest’ultima parte della delega in tema di riscossione dei tributi occorre ora prestare attenzione.

Con l’attuale art. 19, comma 1, sub c) s’impone testualmente al Governo, nell’esercizio della delega ex art. 1, di “modificare l’articolo 57 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, prevedendo che le opposizioni regolate dagli articoli 615, secondo comma, e 617 del codice di procedura civile siano proponibili dinanzi al giudice tributario, con le modalità e le forme previste dal citato decreto legislativo n. 546 del 1992, se il ricorrente assume la mancata o invalida notificazione della cartella di pagamento ovvero dell’intimazione di pagamento di cui all’articolo 50, comma 2, del medesimo decreto del Presidente della Repubblica n. 602 del 1973”.

La norma riproduce tal quale quella dell’art. 17, comma 1, lettera c), del Disegno di legge (n. 1038 Camera) presentato dal Ministro dell’Economia e delle finanze, riguardo al quale già si erano manifestate fortissime perplessità nell’editoriale del 27 maggio 2023 (“Nella delega fiscale un brutto “neo” sulla giustizia tributaria. La Parola al Parlamento”). Il Parlamento, purtroppo, senza dotarsi, nella fretta, di qualche opportuna audizione, non solo non ha “parlato”, ma neppure ha fatto una piega e la “frittata” o “pasticciaccio brutto”, che dir si voglia, ormai c’è, con il conseguente pesante lascito per il legislatore delegato.

Delle ragioni di diritto e, ancor prima, di funzionalità e convenienza, che avrebbero giustificato l’eliminazione di questo criterio o direttiva di delega, invertendone la sostanza, o, quanto meno, lasciando libero il legislatore delegato di provvedere al riguardo in piena libertà dopo un più attento approfondimento delle relative problematiche e delle sue ricadute su tutta la disciplina dell’esecuzione forzata tributaria, già si è detto nel sopra ricordato editoriale del 27 maggio, a cui per brevità semplicemente si rinvia l’avveduto Lettore.

Quel che ora, a legge ormai purtroppo approvata, resta da aggiungere, in una prospettiva di agone dialetticamente ancora meritevole di essere coltivato, è semplicemente questo.

La norma, così com’è formulata, da chi evidentemente poco sa di processo tributario e ancor meno di esecuzione forzata tributaria, prevede lo spostamento delle opposizioni esecutive specificamente previste dagli articoli 615, comma 2, e 617 c.p.c. dal giudice dell’esecuzione (tribunale civile) al giudice tributario secondo le modalità e le forme di cui al D.Lgs. n. 546/1992 per il solo caso che si assuma venga dedotta la mancata o invalida notificazione della cartella di pagamento ovvero dell’intimazione di pagamento di cui all’art. 50, comma 2, D.P.R. n. 602/1973, così non disponendo, invece, per il caso, destinato a diventare la regola secondo la previsione dell’art. 18, comma 1, lettera e), n. 1, della legge delega, che la riscossione avvenga senza lo strumento del ruolo e della cartella di pagamento, di cui fa parte anche l’intimazione di pagamento ex art. 50, comma 2, D.P.R. n. 602/1973. E non si vede allora il senso della specifica previsione dell’art. 19, comma 1, lettera c).

Non solo.

In detta norma nulla è detto per il caso che il vizio di mancata o invalida notifica della cartella o dell’intimazione di pagamento sia dedotto con le altre opposizioni esecutive previste dal c.p.c. che non rientrano nell’ambito degli articoli 615, comma 2, e 617 c.p.c.

E, infine, il richiamo alle modalità e alle forme di cui al D.Lgs. n. 546/1992 comporta che il giudice tributario si avvalga dei poteri decisori quivi previsti. Nei quali, però, non rientra nessuno dei poteri necessari per regolare la complessa situazione giuridica determinata a seguito del pignoramento dei beni e il loro assoggettamento a vendita forzata il cui ricavato deve necessariamente rifluire in un giudizio di distribuzione del ricavato stesso fra tutti i creditori secondo le cause di prelazione (pegno, ipoteche, privilegi) normativamente previste a tutela del principio costituzionalmente guarentigiato della par condicio creditorum, giudizio che resta affidato e non può che essere, anche materialmente, gestito, se non dal giudice dell’esecuzione, tenuto conto di tutte le opposizioni esecutive previste dal codice di procedura civile.

In tali frangenti non si riesce davvero a capire come possa trovare posto il giudice tributario, al quale infatti il D.Lgs. n. 546/1992 non ha mai riconosciuto il potere giurisdizionale di intervenire sulle situazioni soggettive (proprietà, facoltà di disposizione dei beni pignorati e così via) che si determinano a seguito dell’atto di pignoramento e degli altri atti esecutivi, che, non a caso, la legge (art. 2, D.Lgs. n. 546/1992) ha infatti escluso dall’ambito della giurisdizione tributaria.

Di fronte al pasticciato guazzabuglio che le legge delega ha così provocato riesce davvero difficile pensare come il “povero” legislatore delegato possa venirne a capo, per rimediare a una disposizione che, senza tema di smentita, risulta essere stata “combinata” da chi evidentemente mai ha avuto praticamente a che fare, né con l’esecuzione forzata civile, né con l’esecuzione forzata tributaria ex D.P.R. n. 602/1973.

I costi della progettata riforma figurano al momento azzerati, ma i costi per sanarne le conseguenze pregiudizievoli che ne deriveranno, quanto meno in parte qua, si prefigurano, purtroppo, in linea con quelli del tanto vituperato superbonus edilizio, le cui controversie a tutt’oggi neppure ex lege n. 111/2023, si sa se debbano essere o meno gestite ad opera dei giudici tributari. Povera Italia!

Copyright © – Riproduzione riservata

Fonte