La questione trae origine dall’impugnazione di tre cartelle di pagamento notificate ad una società alberghiera del Salento, che si era vista applicare illegittimamente dal Comune una tariffa differente rispetto a quella prevista per le abitazioni, in evidente contrasto con l’art. 68, D.Lgs. n. 507/1993 che, invece, comprende in un’unica categoria gli esercizi alberghieri e le abitazioni civili e dispone a riguardo l’applicazione della medesima tariffa.
Con le sentenze n. 612/09/2008, n. 614/09/2008 e n. 616/09/2008, la sez. IX della CTP di Lecce, dunque, risolveva la questione accogliendo le doglianze della società alberghiera e facendo una corretta applicazione della norma di cui all’art. 68, D.Lgs. n. 507/1993 citato.
In particolare, ai fini della tassazione in esame, il Collegio leccese equiparava le attività alberghiere alle civili abitazioni, richiamando quanto espresso dalle Finanze con risoluzione n. 55/E del 1997, in cui si sostiene che ai fini dell’applicazione della TARSU, nel formulare la classificazione delle categorie e nello stabilire le tariffe per ciascuna di esse, i Comuni debbono tenere conto delle indicazioni fornite dall’art. 68, comma 2, D.Lgs. n. 507/1993.
Alla luce di tali argomentazioni, i Giudici tributari leccesi rilevavano non solo che il diverso trattamento preteso nella specie dal Comune fosse in evidente contrasto con tali disposizioni, ma anche che si dovesse dare adeguato rilievo al principio per cui «aree che presentino la stessa potenzialità di rifiuti, salve diverse risultanze in fatto riscontrabili per particolari attività o per particolari condizioni o modalità di svolgimento della stessa attività, debbano essere tassate con il medesimo criterio».
Pertanto, nel caso delle attività alberghiere, apparivano «sussistere aree aventi una diversa potenzialità produttiva di rifiuti: maggiore per le aree destinate a ristorazione, cucine ed altro, minore per le aree destinate alle unità abitative».
Tale valutazione conclusiva induceva, dunque, i primi Giudici a ritenere legittima la tassazione delle aree non destinate ad uso abitativo, disponendo la riliquidazione della tassa per quelle aree destinate ad unità abitative.
Avverso dette sentenze, però, proponeva tempestivo appello il Comune, che, nonostante avesse provveduto con delibera a differenziare l’area di un albergo destinata ad alloggi da quella destinata a ristorante e bar, eccepiva come, nella determinazione delle categorie da assoggettare alla tassa, «l’ente abbia provveduto a rilevare le potenzialità di produzione quantitativa di rifiuti da parte delle diverse tipologie di locali e che, dunque, sulla base di dette risultanze sia stata effettuata una classificazione preordinata a raggruppare tra loro le categorie omogenee, fra le quali quelle riguardanti le attività alberghiere».
Orbene, ciò posto ed esaminato dai Giudici d’appello, nelle sentenze n. 71, n. 72 e n. 73 pronunciate dalla sezione XXII della CTR Puglia, non è stato ritenuto dagli stessi condivisibile sulla base delle seguenti argomentazioni: «secondo la tesi prospettata dall’Ente, nulla vieterebbe agli organi comunali di adottare tariffe differenziate tra case ed esercizi alberghieri o case vacanze. Tuttavia l’espressione “in linea dì massima” induce a ritenere che una significativa differenziazione delle tariffe, ai fini del controllo di legittimità, vada adeguatamente motivata. In assenza di tanto, come nel caso di specie, dove dagli atti del processo non si rileva che l’ente abbia proceduto a chiarire motivi della differenziazione operata tra case ed esercizi alberghieri, si deve ritenere che, proprio sotto il profilo della mancata giustificazione che sottende alla loro assimilazione, possa essere disapplicato il regolamento che collochi gli immobili in questione in equivalenti categorie tariffarie.
In altre parole, il Collegio ritiene che la maggiore capacità di produrre rifiuti delle aziende alberghiere (o delle strutture ad esse assimilate) o di parti di esse, alla luce della “omologazione” di massima di cui all’art. 68, deve essere adeguatamente motivata in quanto vi sono aree molto vaste di strutture alberghiere che non sono produttive di rifiuti (CTR Firenze, sentenza n. 23/22/03), mentre altre lo sono di più. È indicativo, a tal proposito, il paradigma previsto dal c.d. Decreto Ronchi ove si evidenzia come le diverse tipologie di attività implichino una diversa potenzialità a produrre rifiuti solidi. […]
Le conclusioni alle quali si è giunti, d’altra parte, appaiono recepite anche dallo stesso Comune appellante, il quale, per gli anni successivi a quello oggetto dell’imposizione contestata, ha recepito quanto appena indicato».
In conclusione, dunque, per la prima volta, viene finalmente confermato anche in secondo grado che gli alberghi, seppur limitatamente alla parte destinata ad alloggi, devono pagare la TARSU con applicazione della stessa tariffa prevista per le abitazioni civili, con conseguente illegittimità di ogni pretesa contraria a detto principio.