Tempi più lunghi per pagare il debito tributario. A vantaggio di chi?

La Costituzione prevede due istituti di clemenza generalizzata (amnistia e indulto) e un istituto di clemenza ad personam, rappresentato dalla prerogativa presidenziale di concedere la grazia e commutare le pene. La concessione dell’amnistia e dell’indulto, prevista dall’art. 79 Cost., è stata oggetto di una disciplina molto restrittiva nel 1992 sull’onda della pressione dell’opinione pubblica all’epoca di “mani pulite”: la richiesta di una maggioranza parlamentare di due terzi (di problematico raggiungimento) ha fatto sì che quella del 1992 sia stata l’ultima amnistia e che in più di trenta anni ci sia stato un solo provvedimento di indulto (nel 2006). Il problema, di natura giuridica ma di matrice politica, è diventato quello di escogitare vie alternative alla clemenza e alla premiabilità nel rispetto della pratica impercorribilità dell’amnistia e dell’indulto e in permanenza dell’obiettivo di deflazionare i procedimenti penali e amministrativi. Sono così germogliate cause di non punibilità, di esclusione della punibilità, di estinzione del reato, di sospensione condizionata dell’esecuzione della parte finale della pena detentiva e di ravvedimento operoso, fino all’ultima stagione rappresentata dalla non punibilità per tenuità del fatto, dalla estinzione del reato per condotta riparatoria e della messa alla prova, dalla improcedibilità mentre già si delinea l’avvento della giustizia riparativa.

Un terreno fecondo di sperimentazione di misure clemenziali (o, a loro modo, premiali) è sempre stato quello tributario, caratterizzato dal susseguirsi di misure restrittive accompagnate da forme di perdono rivolte al passato sub specie di “collaborazione volontaria”, di condoni, sanatorie ed altre figure (tipo voluntary disclosure), di volta in volta escogitate per assicurare comunque un introito allo Stato-Erario e stanare sacche di evasione fiscale consolidatesi per scarsità di controlli o pratica impossibilità di svolgerli con successo.

Come per l’amnistia tributaria così per i vari condoni et similia succedutisi nel tempo era necessario – almeno per salvare la faccia – che il contribuente riottoso pagasse un qualche obolo sostitutivo della sanzione per regolarizzare la sua posizione (assicurando in tempi brevi un qualche introito straordinario), motivo per cui aveva fatto scalpore la soppressione (senza introiti per l’Erario) delle contravvenzioni tributarie che si era tradotta in una sanatoria automatica e senza corrispettivo per una marea sconfinata di autori di illeciti penali tributari minori.

La tecnica del bastone e della carota ha trovato spazio anche con la riforma, nel 2015, del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74 che – accanto ad un generale inasprimento della disciplina sanzionatoria e al già disposto (nel 2011) aumento di un terzo dei termini di prescrizione – ha previsto congrue circostanze attenuanti della sanzione penaltributaria e, soprattutto, una specifica causa di non punibilità legata al pagamento del debito tributario “anche a seguito delle speciali procedure conciliative e di adesione all’accertamento previste dalle norme tributarie” (art. 13).
In questo contesto normativo – su cui ha ulteriormente inciso la disciplina del 2019 che ha inasprito le pene comminate, ampliato i casi di confisca e introdotto la responsabilità amministrativa degli enti per i “reati tributari” (art. 25-quinquiesdecies, D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231) – viene ad inserirsi l’art. 23, D.L. n. 34/2023 che ha ritenuto necessario ed urgente la previsione di una “causa speciale di non punibilità per i reati tributari”, che ha subito raccolto la (ricorrente) obiezione di essere una “amnistia mascherata”, di essere più che un ammiccamento per gli evasori e, non ultimo, di essere in rotta di collisione con il PNRR.
I reati interessati sono gli stessi già previsti dall’art. 13, D.Lgs. n. 74/2000 (e cioè l’omesso versamento di ritenute, dell’IVA e l’indebita compensazione); la causa di non punibilità è subordinata, come per il passato, all’integrale pagamento del debito tributario “comprese sanzioni amministrative ed interessi”; la novità riguarda essenzialmente i termini per l’adempimento del debito tributario che non deve più avvenire “prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado”, ma che – adesso – assicura la non punibilità purché “le relative procedure siano definite prima della pronuncia della sentenza di appello”.
La modifica legislativa (da confermare in sede di conversione in legge del D.L. n. 34/2023) – stando alla relazione tecnica – potrebbe incentivare la definizione dei debiti fiscali e, quindi, avere potenziali effetti positivi sul gettito.

Sul piano pratico la dilazione dei termini di pagamento giova essenzialmente al contribuente imputato che ha già manifestato interesse a comporre i risvolti tributari della vicenda (così da usufruire anche dei risvolti positivi sulla fattispecie penale); giova al contribuente condannato in primo grado (cui è concesso un “ultimo treno” per sottrarsi alla sanzione penale, rappresentato dal termine più ampio – previsto dalla “tregua fiscale” – per definire i propri rapporti con il Fisco); giova anche al contribuente assolto in primo grado da una sentenza appellata dalla pubblica accusa, che potrebbe essere indotto ad avvalersi della nuova normativa per cristallizzare comunque l’esito positivo già conseguito.

L’art. 23 D.L. n. 34/2023 appare allo stato una norma ancora “grezza” e il necessario passaggio parlamentare dovrà essere illuminante sui vari punti che appaiono sommariamente delineati: ad es., la effettiva durata della “specialità” della causa di non punibilità rispetto all’art. 13 D.Lgs. n. 74/2000 potrebbe anche portare alla sostituzione/soppressione della causa “generale” di non punibilità tributaria, rendendo permanente ciò che oggi è temporalmente precario.
Appare un falso problema quello del disincentivo al patteggiamento perché questo istituto è subordinato all’integrale pagamento del debito tributario “comprese sanzioni amministrative e interessi” (art. 13-bis comma 2 D.Lgs. n. 74/2000) e, ragionevolmente, nessuno – a parità di oneri economici – sceglierà di accettare una pena concordata (che vale come precedente penale) rispetto alla possibile causa di non punibilità (speciale o generale che sia).

Certamente vi potrà essere un allungamento dei tempi processuali, ma anche la causa di non punibilità applicata con la sentenza d’appello avrà comunque effetti deflativi, evitando il ricorso per cassazione e incidendo sul contenzioso tributario, anche giudiziario (il che è un obiettivo comunque in linea con il PNRR).

Il vero profilo positivo della tregua fiscale, come della precedente normativa generale, è nell’adempimento spontaneo (o “spintaneo”) agli obblighi verso lo Stato-Erario perché – non va dimenticato – che la normativa sulla confisca è sterile se non vengono trovati beni da aggredire e che la stessa esecuzione coattiva non assicura alcun concreto risultato nei confronti di chi, pur penalmente condannato, non ha beni o risulta non averne: eventi entrambi ricorrenti nella casistica giudiziaria (per non parlare dei tempi e dei costi che si rendono necessari).

Più che un’istigazione a provare a evadere e ad aspettare i processi (comunque – a ben riflettere – già rinvenibile nella causa di non punibilità “generale”), si è di fronte al tentativo di semplificare tempi ed esiti del procedimento di riscossione.

L’incentivo all’evasione fiscale è nella rarefazione dei controlli e non negli espedienti per chiudere i rapporti con contribuenti infedeli, già identificati come tali.

Rimane, sullo sfondo, il discorso essenzialmente politico sull’opportunità di talune scelte per favorire la “fuga” dal processo e dalla sanzione dei responsabili di reati non solo tributari, ma – al di là delle possibili variegate risposte – il D.L. n. 34/2023 appare inserirsi in un trend già consolidato da tempo e in un ruolo molto marginale.

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