Quella sinteticamente descritta è solo una prima fase, atteso che l’art. 21, comma 2, della delega stabilisce che, entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore dell’ultimo dei decreti correttivi e integrativi di cui all’art. 1, comma 6, il Governo proceda al “riassetto delle vigenti disposizioni di diritto tributario per la raccolta di esse in un codice articolato in una parte generale, recante la disciplina unitaria degli istituti comuni del sistema fiscale, e una parte speciale, concernente la disciplina delle singole imposte”. I criteri direttivi da seguirsi per la parte generale si sostanziano nel recepimento dei principi statutari e nella “previsione di una disciplina, unitaria per tutti i tributi, del soggetto passivo, dell’obbligazione tributaria, delle sanzioni e del processo”, dovendo peraltro la disciplina dell’obbligazione avere a oggetto principi e regole in materia di dichiarazione, accertamento e riscossione.
Un’opera ambiziosissima, quindi, che, in una prospettiva bifasica, si prefigge l’obiettivo di dare vita a un corpus normativo che, per utilizzare le parole di Ezio Vanoni, risponda al “bisogno di rendere chiaro, semplice e razionale l’ordinamento dei tributi”. Si ridurrebbero, dando realizzazione al descritto progetto, che giustamente enfatizza la centralità del diritto positivo, gli spazi che un ordinamento caotico e asistematico (o polisistematico, come aveva teorizzato la Corte costituzionale negli anni ’80 del secolo scorso, cfr. ordinanza n. 392/1983) lascia a interpretazioni arbitrarie che finiscono per prescindere dal dettato normativo. Il fine, più che commendevole, è quello di spezzare il circolo vizioso a cui tutti assistiamo quotidianamente: produzione normativa spesso episodica o necessitata da esigenze di copertura o da obiettivi agevolativi-promozionali, sovrapposizione di istituti, cattivo coordinamento, difficoltà di interpretazione, nuovi interventi legislativi e di prassi finalizzati al chiarimento dell’esistente, senza che si faccia mai riposare la macchina legislativa, che quindi sforna norme a getto continuo.
Non si può quindi che guardare con estremo favore al descritto tentativo, su cui tuttavia, pur nei limiti di spazio che ci sono concessi, è il caso di offrire qualche ulteriore spunto di riflessione.
Il rapporto tra Testi Unici e riforma fiscale
Il primo attiene al rapporto tra riordino-compilazione dei Testi Unici e la riforma, il cui cantiere è tutt’altro che chiuso. In uno scritto di Maria Cristina Pierro del 2022 si faceva riferimento a quell’orientamento della dottrina francese della fine del secolo scorso secondo la quale è molto difficile, se non impossibile, fare andare di pari passo le modifiche e la codificazione, tanto più, è il nostro caso, se le riforme non siano riconducibili all’ordinaria manutenzione dell’esistente, ma alla consistente riscrittura di quasi tutti i settori in cui si articola l’ordinamento tributario. Si tratta di timore tutt’altro che infondato, che, tuttavia, nel caso di specie, va forse sdrammatizzato: è infatti solo il varo dei testi unici che vive nello stesso spazio temporale della riscrittura delle regole, risultando rinviato il definitivo riassetto, che culmina nella realizzazione di un vero e proprio codice, a una fase successiva anche alla correzione e integrazione dei decreti. In definitiva, mi sembra convincente il metodo che si fonda sull’idea di “fare ordine” sia durante la riforma, recependo quel che è disponibile al momento del varo dei testi unici, sia successivamente a essa, in un momento in cui sarà quindi possibile intervenire sulla parte generale in modo da recepire i principi dello Statuto e arrivare a una disciplina unitaria di soggetto passivo, obbligazione tributaria (dichiarazione, accertamento e riscossione), sanzioni e processo.
Il rapporto tra Testi Unici e codice tributario
Il secondo attiene al rapporto tra Testi Unici, obiettivo intermedio del riformatore, e il codice, esito finale dell’azione di riordino.
Mi pare, su questo specifico aspetto, che si possa affermare che il termine codice non è qui utilizzato nel suo significato classico di insieme di regole che disciplinano in modo coerente e organico una materia innovando rispetto al passato: ha avuto la prevalenza, correttamente, l’idea di codice come raccolta ordinata di leggi che abbia la funzione di rendere le stesse più chiare e conoscibili. Ne consegue che sia gli uni (testi unici, lo si evidenzia peraltro nella premessa alle bozze) che l’altro (codice) dovrebbero avere carattere compilativo, non potendo accadere che gli stessi siano considerati come occasione per innovare, tra l’altro in presenza di criteri direttivi, basta leggere l’art. 21 della delega, molto vaghi e quindi non veramente obbliganti.
Viene meno quindi, in questa prospettiva, anche ogni perplessità sul fatto che l’Agenzia delle Entrate sia stata direttamente interessata all’operazione: se ci si limita, ed è già tantissimo, a individuare le norme vigenti dividendole e organizzandole per settori, non vi è motivo, lo si può affermare con certezza per quel che concerne i Testi Unici, per escludere la più importante agenzia fiscale da un lavoro di sistemazione così configurato.
Quale sarà il futuro dei Testi Unici e del codice?
Il terzo riguarda il futuro dei testi unici e del codice, quando a esso si giungerà. Si è già detto, ma è perfino banale osservarlo, che la legislazione tributaria è in continuo movimento, sicché le soluzioni individuate potrebbero diventare meno utili di quel che parrebbe a prima vista se non si rallenta, se non si frena. Il che, tuttavia, può accadere solamente se prevalesse tesi opposta a quella, oggi maggioritaria, secondo la quale il prelievo fiscale si giustificherebbe in via prioritaria per le sue finalità extrafiscali, dovendo considerarsi l’intervento statale non tanto finalizzato a procurare risorse a coperture delle spese, ma piuttosto, come notava, ponendosi criticamente, Dario Stevanato in un suo libro sulla giustificazione sociale dell’imposta di qualche anno fa, per “attuare un diretto trasferimento di mezzi finanziari, intermediato da pubblici poteri, tra individui e classi sociali”.
In altre parole, la codificazione è un seme d’oro solo se si attribuisce al diritto tributario la funzione che gli spetta, che dovrebbe essere principalmente quella di consentire allo Stato e agli altri enti territoriali di finanziare le loro spese; se, invece, si considera, per dirla con Franco Gallo, il tributo come lo strumento più duttile a fini redistributivi, la nostra materia finisce per assumere spiccati connotati promozionali, trasformandosi in una sorta di diritto delle agevolazioni, che, in quanto tale, necessita di essere continuamente rivisto, riscritto, limato per disciplinare tutti i casi che meritino l’attenzione del legislatore redistributore.
In un siffatto contesto, il Testo Unico/codice si rivelerebbe un argine del tutto inadeguato alla proliferazione normativa che, fatalmente, farebbe ripartire quel circolo vizioso che la codificazione ha l’obiettivo di interrompere.