Verifiche fiscali italiane. Per la CEDU così non va, occorre un nuovo approccio

Secondo la Corte europea dei Diritti dell’Uomo le disposizioni della normativa italiana in materia di accessi, ispezioni e verifiche fiscali hanno un contenuto estremamente ampio e generico, tale da privare il contribuente delle garanzie necessarie contro l’arbitrarietà e la discrezionalità dell’attività amministrativa. Cosa serve allora? Ci aspettiamo l’emanazione di precise “linee guida operative” da parte del legislatore vincolanti per l’Amministrazione finanziaria, che trasformino gli accessi e le ispezioni in attività di conferma di una possibile evasione fiscale già prefigurabile in base agli elementi raccolti dagli Uffici, e non una sorta di “caccia al tesoro” di fatti che costituiscano essi stessi la fonte che legittima ex post le indagini effettuate. Ma anche una sensibilizzazione dei giudici tributari, con sentenze che inizino a statuire l’inutilizzabilità degli elementi di prova acquisiti in violazione dell’art. 10-ter dello Statuto dei contribuenti. Un cambio di paradigma (e di mentalità) fondamentale, ma oggi irrinunciabile, per evitare quella discrezionalità (se non arbitrarietà) dell’attività amministrativa che si riverbera sulla sfera privata del contribuente, proibita dalla CEDU.

Secondo la sentenza del 6 febbraio 2025, ricorsi 36617/18 della Corte europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) le disposizioni della normativa italiana in materia di accessi, ispezioni e verifiche fiscali hanno un contenuto estremamente ampio e generico, tale da privare il contribuente delle garanzie necessarie contro l’arbitrarietà e la discrezionalità dell’attività amministrativa, e presentano dunque significative difformità rispetto ai principi stabiliti dall’art. 8 della Convenzione CEDU.

Sinteticamente, ricordiamo che questa norma stabilisce che ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza; questo diritto può essere limitato solo per specifiche esigenze, fra cui il “benessere economico del paese” e “la prevenzione dei reati”, in presenza della quali è ammessa una “ingerenza” pubblica nella vita privata.

Secondo la CEDU, questa ingerenza deve però essere ragionevolmente limitata, ed in particolare ogni autorizzazione amministrativa deve indicare gli elementi di prova che le autorità si aspettano di trovare in relazione ai fatti oggetto di indagine.

Ciò per consentire alla persona (prima ancora che al contribuente) di valutare l’adeguatezza, il numero, la durata e la portata di tali operazioni e le informazioni personali (quali documenti, foto e-mail) che vengono richieste, per poi essere copiate o sequestrate. Dovrebbero inoltre essere previste “sufficienti garanzie procedurali”, e cioè opportuni rimedi giurisdizionali per limitare in itinere eventuali violazioni dei diritti sanciti dall’art. 8, e non solo rimedi ex post, rappresentati dall’eventuale nullità degli atti di accertamento derivanti da ispezioni illegittime.

La Corte ritiene, dunque, fondamentale che lo Stato italiano adotti le misure appropriate al fine di allineare legislazione e prassi a queste constatazioni, attraverso l’introduzione di norme specifiche nella disciplina procedurale delle verifiche fiscali.

Va subito detto che questa sentenza si fonda sull’analisi della normativa italiana anteriore all’emanazione delle modifiche allo Statuto dei diritti del contribuente, previste dell’art. 1 del D.Lgs. n. 219/2023 con il quale, in particolare, è stato ora introdotto l’art. 10-ter della legge n. 212/2000.

Questa norma introduce il c.d. principio di proporzionalità, secondo cui deve sussistere un “bilanciamento” fra la protezione dell’interesse erariale alla percezione del tributo e la tutela dei diritti fondamentali del contribuente. In applicazione di detto principio, l’azione amministrativa deve essere necessaria per l’attuazione del tributo, ma non eccedente rispetto ai fini perseguiti e non deve limitare i diritti dei contribuenti oltre quanto strettamente necessario.

Si tratta dunque della risposta del legislatore italiano rispetto alle censure della CEDU, poi formalizzate nella sentenza sopra ricordata.

Ora, è chiaro che il punto essenziale non è solo la previsione del fondamentale ed irrinunciabile principio di proporzionalità, quanto la sua declinazione concreta. E qui va detto che a livello legislativo e regolamentare non vi è (ancora) stato alcun provvedimento che abbia in qualche modo modificato le procedure amministrative riguardanti le verifiche, le ispezioni e gli accessi nei confronti del contribuente.

In particolare, la proporzionalità fra l’ampiezza e l’incisività del controllo fiscale ed i diritti del contribuente deve poter essere valutata e valutabile prima ancora dell’inizio delle attività di indagine rivolte verso il contribuente. Così, l’Amministrazione finanziaria dovrà necessariamente effettuare un’attività istruttoria interna dalla quale emergano indizi di una grave evasione, prima di accedere ai dati bancari del contribuente o – peggio ancora – al suo domicilio privato, alle sue mail, ai suoi documenti personali; inoltre, di tale attività istruttoria deve dare conto al contribuente, prima ancora di iniziare quelle azioni che possano costituire una legittima “ingerenza pubblica” nella vita privata delle persona, alla cui protezione è rivolto l’art. 8 della convenzione CEDU.

Non basterà, quindi, essere inseriti, nelle “categorie a rischio” individuate a livello centrale dall’Amministrazione finanziaria, per consentire un controllo pervasivo ed invasivo nei confronti del singolo contribuente. Questa fase dovrà essere preceduta, ad esempio, da una attenta analisi dei comportamenti economici del singolo contribuente, delle sue disponibilità patrimoniali (proprie o di soggetti ad esso vicini) non giustificate dai redditi dichiarati, dal tenore di vita manifestato. Gli esiti di queste indagini preliminari devono poi guidare le successive verifiche, che dovranno rispondere appunto al principio di proporzionalità fra quanto posto in essere e quanto ci si aspetta di rinvenire, per confermare i “sospetti” di evasione concretamente rilevati.

Su questo punto, mi pare si possa affermare che il nostro legislatore e la prassi amministrativa devono ancora compiere importanti passi in avanti. Le autorizzazioni agli accessi presso il contribuente dovranno, quindi, essere attentamente motivate in base all’esito delle indagini preliminari svolte, che a loro volta devono giustificare le specifiche azioni di controllo effettivamente svolte presso il contribuente e la sua sfera personale, pena l’illegittimità dell’intera attività istruttoria.

In questo senso si sta indirizzando il disegno di legge S.1376 appena presentato in Senato, il cui iter non appare brevissimo

A seguito della sentenza CEDU qui ricordata ci aspettiamo allora l’emanazione di precise “linee guida operative”, vincolanti per l’Amministrazione finanziaria, che trasformino gli accessi e le ispezioni in attività di conferma di una possibile evasione fiscale già prefigurabile in base agli elementi raccolti dagli Uffici, e non una sorta di “caccia al tesoro” di fatti che costituiscano essi stessi la fonte che legittima ex post le indagini effettuate.

Ci aspettiamo anche una sensibilizzazione dei giudici tributari sul punto, con sentenze che inizino a statuire l’inutilizzabilità degli elementi di prova acquisiti in violazione dell’art. 10-ter dello Statuto dei contribuenti.

Si tratta di un cambio di paradigma (e di mentalità) fondamentale, ma oggi irrinunciabile, per evitare quella discrezionalità (se non arbitrarietà) dell’attività amministrativa che si riverbera sulla sfera privata del contribuente, proibita dalla Convenzione dei diritti dell’uomo.

Copyright © – Riproduzione riservata

Per accedere a tutti i contenuti senza limiti abbonati a IPSOA Quotidiano Premium

1 anno
€ 118,90
(€ 9,90 al mese)

Primi 3 mesi
€ 19,90
poi € 35,90 ogni 3 mesi

Fonte