Verso l’abolizione dell’IRAP? La fine di un equivoco

L’IRAP, un’imposta controversa con una vita travagliata e densa di incertezze e contenziosi, oltre che di obiezioni degli operatori. Anche se è stata introdotta come strumento di semplificazione di un sistema complesso e, quindi, quale elemento di razionalizzazione (all’epoca ha sostituito ben sei prelievi). Per superare le criticità e tutte le complicazioni dovute alla sua applicazione ed agli adempimenti dichiarativi con relativi obblighi contabili, perché non abolirla? Ci si sta pensando a livello parlamentare. Qualunque sia l’opzione che verrà eventualmente adottata, l’effetto semplificativo prodotto nel sistema tributario agirà come volano per cercare di ottenere maggiore efficienza nella gestione aziendale. Ma i vincoli di finanza pubblica non potranno permettere un’effettiva diminuzione della pressione tributaria. Quali scenari potrebbero allora aprirsi? La crisi di Governo non induce, però, a prevedere nulla di positivo.

L’IRAP è sempre stata considerata una delle imposte più controverse tanto tra gli studiosi che per gli operatori professionali ed economici, che non hanno mai potuto capacitarsi di dovere pagare il tributo anche quando hanno subito una perdita riportata in bilancio.

A livello teorico vi è, tuttavia, una spiegazione perché l’IRAP non è un’imposta sulle imprese, ma sul reddito prodotto dai vari soggetti (imprenditore, lavoratori, finanziatori) che concorrono a creare la produzione, per cui solo la quota relativa ai profitti è riferibile alle imprese. Non può negarsi, perciò, che essa è in sostanza un’imposta sul reddito prodotto dalle varie componenti produttive interne all’entità organizzata in cui operano (imprenditore, lavoratori, finanziatori), prelevata per semplicità dall’impresa al momento della sua produzione. Il meccanismo di calcolo della base imponibile previsto dalla normativa di riferimento rende poco palese questo processo, ma in definitiva si tratta di una semplice equazione, in cui il valore netto della produzione è uguale alla sommatoria delle remunerazioni all’impresa, al lavoro dipendente e assimilato ed ai finanziatori.

Queste indubbie caratteristiche positive sotto il profilo strutturale male si conciliano, però con i suoi effetti che sono avvertiti come irrazionali, tanto che la componente lavoro della base imponibile, quella più esposta alle critiche, è stata da qualche anno in concreto pressochè sterilizzata, ammettendone sostanzialmente la deduzione, pur se con un meccanismo alquanto farraginoso.

Con questa incisiva modifica l’IRAP si applica ora solo alla componente reddituale ed agli oneri finanziari, che in questo periodo di bassi tassi d’interesse non incidono in misura rilevantissima. Tanto che, depurata della sua più rilevante componente qual è il costo del lavoro, l’inutilità di un’imposta di questo tipo è da considerare abbastanza fondata, rappresentando un quasi doppione delle imposte sui redditi.

Uno dei pregi attribuiti dagli studiosi all’IRAP è quello di gravare su un’ampia base imponibile con basse aliquote, con l’intento di ridurre le distorsioni e garantire la neutralità fiscale. Non sono mancate, però, le complicazioni e le controversie continue sull’esistenza o no del presupposto impositivo costituito dall’autonoma organizzazione del contribuente, con infiniti distinguo soprattutto per le attività svolte dai lavoratori autonomi. Una vita, quindi, travagliata e densa di incertezze e contenziosi, oltre che di obiezioni degli operatori con riguardo all’iniziale indeducibilità dalle imposte sui redditi, poi mitigata con la deduzione forfettaria del 10%.

Per evitare discorsi generici e superficiali occorre ricordarsi che l’IRAP è stata introdotta nel nostro ordinamento tributario come strumento di semplificazione di un sistema contorto e complesso e, quindi, quale elemento di razionalizzazione. All’epoca essa ha sostituito ben sei prelievi, tra i quali vanno ricordati, in particolare, i contributi sanitari che gravavano sul reddito di lavoro e l’imposta patrimoniale applicata al capitale proprio delle imprese.

Per superare queste evidenti criticità e tutto l’apparato delle complicazioni dovute alla sua applicazione ed agli adempimenti dichiarativi con relativi obblighi contabili, l’idea, per ora solo ipotizzata in ambienti politici riferiti all’area del dimissionario Governo (in particolare ne parla il sottosegretario all’economia Bitonci), è quella di eliminarla dal nostro sistema tributario. Disegno questo che appare del tutto coerente con l’intendimento di razionalizzazione e soprattutto di semplificazione degli adempimenti a carico dei contribuenti, se solo si pensa che in questo modo si eliminano circa 4 milioni di dichiarazioni ed anche tutte le rielaborazioni dei dati di bilancio per determinare la base imponibile. Va aggiunto lo sfoltimento di adempimenti anche da parte delle Regioni che sono destinatarie dell’imposta. Per completezza va ricordato che, anche di recente, sono state avanzate analoghe proposte dalle fonti più diverse: da Assolombarda al viceministro Casero all’epoca del Governo di centro-sinistra, fino a Renzi (sì, proprio lui nella Leopolda del settembre 2018, abbinata all’abolizione dell’imposta di registro). Non sono neanche mancate, quale giustificazione dell’abolizione, motivazioni economiche sulla riduzione dei costi, con un forte stimolo alla competitività delle imprese considerando che la crisi è molto più profonda e lunga del previsto. La limitata portata dell’IRAP nel sistema tributario rende quest’argomento alquanto debole, ammesso che sia fondato e comunque per affrontarlo occorrono ben altre leve che quelle modeste dell’IRAP.

Rimane da affrontare, però, il problema del gettito sostitutivo che andrebbe generato, da destinare interamente alle Regioni per finanziare soprattutto la spesa sanitaria. Si pone l’esigenza pertanto di sostituire l’IRAP con un tributo a riscossione pressoché automatica, d’ammontare complessivo equivalente. Considerando che oltre il 90% dell’imponibile dell’IRAP è ormai costituito dalla componente reddituale, non si può non essere d’accordo nel pensare ad un’addizione dell’imposta sul reddito (IRES o IRPEF) che pertanto segue le vicende proprie di tale imposta e non genera alcuna complicazione ai contribuenti. Anzi, può essere utilizzata la già esistente addizionale regionale, adeguandone la forcella percentuale e, quindi, limitarsi puramente e semplicemente a sopprimere l’IRAP senza rimpianti e con risparmio apprezzabile degli oneri impropri amministrativi della sua gestione da parte dei contribuenti. Alquanto incerta negli effetti economici sarebbe, invece, la sua sostituzione con un aumento dell’IVA, che, infatti, è stata da sempre solo vagheggiata e poi scartata anche perché è un’imposta che incide sui consumatori e non sulle imprese e, quindi, modificherebbe l’impianto stesso dell’imposizione.

Una diversa alternativa va però pensata per l’IRAP applicata alle Pubbliche amministrazioni, che vale circa 10 miliardi di euro annui di introiti, ed è ragguagliata alle retribuzioni corrisposte al personale dipendente ed ai redditi o compensi similari. Mancando un’imposta sul reddito non può essere utilizzato il modello dell’addizionale. L’ipotesi che circola è quella di recuperare tale gettito con una corrispondente riduzione delle detrazioni sul reddito da lavoro dipendente. Per non generare un’inammissibile decurtazione delle retribuzioni nette occorrerà che le somme prima destinate all’IRAP siano inserite nelle buste paga con effetto in definitiva neutralizzante.

Quale che dovesse essere l’opzione che verrà eventualmente adottata, l’effetto semplificativo prodotto nel sistema tributario agirà come volano per cercare di ottenere maggiore efficienza nella gestione aziendale, mentre i vincoli di finanza pubblica non potranno permettere un’effettiva diminuzione della pressione tributaria, dovendo essere il gettito che viene meno con l’abolizione dell’IRAP sostituito da quello addizionale delle imposte sui redditi, escludendo qualsiasi intervento sulla già martoriata IVA.

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