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Verso una revisione del sistema sanzionatorio in linea con la CEDU. Auspicabile nella riforma fiscale

Verso Una Revisione Del Sistema Sanzionatorio In Linea Con La Cedu
L’Associazione culturale della Scuola dei Difensori tributari, fondata dal prof. Cesare Glendi, lo scorso 14 luglio ha organizzato un interessante seminario dal titolo “La tutela del contribuente fra diritto penale e CEDU”. L’analisi della giurisprudenza della Corte di Strasburgo, approfondita dall’avv. Fabio Cagnola e dall’avv. Matteo De Longis, offre lo spunto per alcune (preliminari) osservazioni sul disegno di legge delega al Governo per la riforma fiscale, approvato alla Camera e trasmesso all’esame del Senato il 12 luglio scorso, nella parte in cui prefigura la “revisione del sistema sanzionatorio tributario, amministrativo e penale” (art. 18). In particolare, nell’ambito di una generale razionalizzazione della disciplina delle sanzioni, si prospetta il “completo adeguamento al principio del ne bis in idem” (art. 18, comma 1, lettera a), n. 1).
Si tratta di un principio codificato all’art. 4, par. 1, del prot. n. 7 della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo (oltre che all’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea), che stabilisce (in modo assoluto, senza possibilità di deroghe) che nessuno può essere “perseguito o condannato” per un reato per il quale è già stato assolto o condannato in base ad una sentenza definitiva. L’utilizzo dell’endiadi “condannato” o “perseguito” chiarisce che il divieto di bis in idem preclude allo Stato non solo di punire due volte una stessa violazione, ma anche di sottoporre un soggetto a diversi procedimenti sanzionatori.
Ci si attende, quindi, un superamento dell’attuale regime duale, improntato ad un “doppio binario”, che importa una (patologica) autonomia dei procedimenti penale e tributario, posto che, da un lato, l’avvio (e addirittura la conclusione con un provvedimento definitivo) del procedimento tributario non impedisce la celebrazione del processo penale e, dall’altro lato, l’Amministrazione finanziaria resta autorizzata ad irrogare “comunque le sanzioni amministrative relative alle violazioni tributarie fatte oggetto di notizia di reato” (art. 21 del D.Lgs. n. 74/2000), poiché il procedimento di accertamento non è sospeso dalla pendenza del procedimento penale (art. 20 del D.Lgs. n. 74/2000).
I due procedimenti, in quanto irrelati, costituiscono duplicazioni sanzionatorie per un medesimo fatto illecito e non una forma di tutela predisposta dall’ordinamento in un’ottica globale e unitaria. Infatti, solamente nell’ipotesi di condanna in sede penale l’attuale sistema esprime una (tendenziale) preferenza per l’applicazione esclusiva della sanzione penale, in virtù del principio di specialità (ex art. 19 del D.Lgs. n. 74/2000). In tutti gli altri casi, resta applicabile la sanzione pecuniaria amministrativa, in aggiunta alle specifiche misure risarcitorie (come gli interessi moratori) previste dalla disciplina tributaria a tutela dell’interesse erariale. Secondo il consolidato orientamento della Corte di cassazione (da ultimo, ord. n. 13696 del 18 maggio 2023), neppure la sentenza irrevocabile di assoluzione, emessa con la formula perché “il fatto non sussiste”, per reati attinenti ai medesimi fatti su cui si fonda l’accertamento tributario, è idonea a bloccare (automaticamente) la prosecuzione del procedimento tributario.

Diversamente, a seguito dell’implementazione del divieto di bis in idem, la conclusione del processo penale impedirà l’irrogazione della sanzione amministrativa. Inoltre, lo svolgimento in parallelo dei due processi (tributario e penale) sarà consentito solo a condizione che il secondo venga interrotto non appena il primo diventa definitivo.

Nel riparametrare il sistema sanzionatorio, il legislatore delegato sarà, quindi, chiamato a porre mano non solo alla disciplina sostanziale (per realizzare una “maggiore integrazione tra i diversi tipi di sanzione”), ma anche a quella procedurale (al fine di “rivedere i rapporti tra il processo penale e il processo tributario”, ex art. 18, comma 1, lett. a), n. 1 e n. 2).

Nell’ambito di questa ambiziosa opera di revisione ci si augura che venga mutuato un ulteriore principio di matrice CEDU, ossia il privilegio contro l’autoincriminazione, che – proprio a causa del deficitario coordinamento dei procedimenti tributario e penale – non trova attualmente piena tutela nel nostro Paese.

Il diritto a restare in silenzio e a non produrre documenti o a rilasciare dichiarazioni contro se stessi, ricavabile dal più generale diritto ad un equo processo (ex art. 6 della CEDU) e sancito espressamente nell’art. 14, par. 3, lett. g) del Patto internazionale sui diritti civili e politici, rende illegittimo l’utilizzo di mezzi di coercizione tesi ad ottenere dall’individuo informazioni che potrebbero essere impiegate a suo carico nell’ambito di un’accusa “in materia penale” e che potrebbero – di conseguenza – condurre all’applicazione di sanzioni “penali”.

Poiché l’espressione “penale”, nel senso autonomo stabilito dalla CEDU, è suscettiva di ricomprendere anche le sanzioni che il nostro ordinamento qualifica come “amministrative tributarie”, e in considerazione del fatto che queste ultime hanno (oramai) assunto una caratterizzazione afflittivo-personalistica che le rende assimilabili alle sanzioni penali vere e proprie, si auspica che il legislatore delegato valorizzi il privilegio contro l’autoincriminazione anche nell’ambito del procedimento di accertamento dei tributi, escludendo la legittimità dei recuperi a tassazione fondati su elementi di prova acquisiti contro la volontà del contribuente, sotto la minaccia di sanzioni.

Secondo la più recente giurisprudenza della Corte di Strasburgo (cfr. sentenza 4 ottobre 2022, De Legé c. Paesi Bassi, ric. n. 58342/15), il diritto al silenzio del soggetto passivo va garantito con riferimento alle informazioni prodromiche alla contestazione tributaria (e all’eventuale accusa penale), ossia nei casi in cui le pubbliche autorità dispongono solamente di meri indizi di violazioni delle norme fiscali (le “fishing expedition”). Si tratta di una giurisprudenza coerente al modello relazionale Fisco-contribuente a cui è ispirato il nostro sistema: laddove l’Amministrazione finanziaria sia in grado di dimostrare che la coercizione è finalizzata all’acquisizione di specifici elementi di prova, della cui esistenza è a conoscenza, il diritto dell’individuo a non contribuire al proprio addebito sanzionatorio cede il passo all’obbligo di rispettare il canone statutario di collaborazione e buona fede nei rapporti con la Pubblica Amministrazione (mutuato nell’art. 1, comma 2-bis, della legge n. 241/1990).

Non sembrano esserci ostacoli, quindi, affinché all’annunciata revisione della disciplina sanzionatoria si accompagni un più generale allineamento della (connessa) disciplina del procedimento tributario allo standard internazionale generalmente riconosciuto.

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